La città ideale: nel film di Lo Cascio l’ambientalismo tra utopia e realtà
“Ma che c’ha ‘sta Siena più di Palermo?”. È la domanda che nel film “La città ideale”, scritto da Luigi Lo Cascio, segna un passaggio importante: quello, traumatico, dal mondo ideale di Michele Grassadonia, interpretato dallo stesso Lo Cascio, e popolato da certezze talvolta illusorie, al mondo reale, in cui dubbi angoscianti e paradossali equivoci la fanno da padroni. E l’interrogativo – come a volte capita nella vita vera – si serve della madre di Michele – che, poi, è nella realtà proprio la mamma di Lo Cascio, presente sul set insieme a tutti e cinque i suoi fratelli – per venir fuori.
Michele Grassadonia è un architetto palermitano, fervente ecologista, che ha lasciato il capoluogo siciliano per trasferirsi a Siena, da lui considerata la città ideale. Da quasi un anno, infatti, Michele sta trasformando il proprio appartamento in un’abitazione del tutto autosufficiente dal punto di vista energetico, attraverso l’utilizzo delle fonti rinnovabili e la rinuncia all’acqua corrente e all’elettricità.
In una notte di pioggia, per fare un favore al suo capo, Michele rimette le mani sul volante di un’auto rigorosamente elettrica, ma finisce contro un’automobile parcheggiata. Qualche chilometro dopo rinviene il corpo di un uomo riverso sull’asfalto. Chiamati i soccorsi, viene interrogato dalla polizia stradale: la macchina ammaccata e tutta una serie di sfortunate circostanze, convincono gli agenti della sua colpevolezza e, così, da soccorritore diventa indagato. È l’inizio di un’avventura paradossale. Ma è anche lo scontro tra il mondo interiore di Michele Grassadonia e la realtà, capace di mettere in moto la ricerca angosciata della verità.
Uno dei temi fondamentali, difatti, è proprio quello della verità: l’ambito giudiziario si presta a un’articolazione piuttosto varia di questo tema. Ed è l’intera struttura del film a rimandare incredibilmente alla scrittura teatrale – Luigi Lo Cascio “nasce” come autore e attore teatrale – tutta giocato su equivoci, a più parti: c’è l’atteggiamento dell’indagato, la parte dell’avvocato difensore, quella, terza, del giudice. Un groviglio kafkiano che insegna al protagonista che la sua visione della verità era piuttosto ingenua. E che, in ambito giudiziario, la frase “l’uomo va in cerca della vittoria, non della verità” si inserisce in un registro secondo il quale la verità comporta un successo, non si preoccupa della certificazione di quanto è accaduto ma solo di quello che appare come verosimile.
“La città ideale” – che ha vinto il Premio “Vittorio De Sica” per la miglior opera prima, il Premio della critica ai Rencontres du Cinéma Italien de Toulouse e il Premio Arca CinemaGiovani per il miglior film italiano alla Biennale di Venezia 2012 – è stato proiettato durante la seconda edizione del Green Movie Film Fest, organizzato dalla Casa del Cinema di Roma il 14 e 15 settembre scorsi. L’opera, alla fine, è il racconto di un’illusione – l’esistenza e la creazione di una città ideale - che la “città reale” si incarica di smentire.
Ecco perché, il soggetto del film sviluppato da Lo Cascio parte sì dalla proposta del tema ambientale e soprattutto dall’indicazione di un modello di vita sostenibile e dall’idea di “Siena-città ideale”, ma poi, come ha spiegato lo stesso regista a Venezia, elabora una riflessione che prende una strada diversa: in fondo, tutti organizziamo le nostre esistenze a partire da un mucchio certezze, da alcune idee – precise, ben disegnate, granitiche – destinate ad andare in fumo non appena il destino (il caso, la Provvidenza, le coincidenze della vita) ci giocano un brutto scherzo, ci tendono un tranello. Può essere decisivo un trauma, un abbandono, una situazione in cui non ci sentiamo riconosciuti: in quel momento qualcosa di noi crolla e non esisterà più. Ma sarà anche in quel momento che il vecchio divario tra le nostre idee e la realtà diventerà più sottile: e questo accade tutte le volte in cui abbiamo consapevolezza del fatto che c’è qualcosa di noi che ci sfugge e che, invece, gli altri colgono.
“Devi tornare a Palermo, qui come fai senza cucina? Ti devi riprendere gioia, pelle e ossa sei!“: la madre di Grassadonia-Lo Cascio fa ingresso nella storia e con lei irrompe anche una parola più intima e più affettuosa, qualcosa che il regista sembra voler indicare, in un certo senso, come qualcosa che si avvicina al senso comune, una “verità” più semplice rispetto a quell’altra che a volte si arrampica sugli specchi e veste l’abito dell’esercizio retorico. Indicazione che sembra tornare in altri momenti del film: “Che c’è venuto a fare qui a Siena?” chiede, a un certo punto, il carabiniere al protagonista che sta per trasformarsi da soccorritore in indagato. “Siena è la città ideale”, risponde Michele. E il carabiniere gli risponde: “Anche Paternò non è male!”.
“Non esiste la città ideale”, spiega in un’intervista Lo Cascio, “se per ideale si intende la città perfetta, quella che ha in mente Michele, l’ecologista-idealista protagonista del film. Il cammino che lui fa, nel corso della storia, è proprio quello che lo porta a pensare che una città sia perfettibile, da costruire, passo dopo passo”. E lo stesso Michele, alla fine della sua disavventura, “resta una persona dall’etica non comune e con principi precisi, ma non per effetto di un automatismo, piuttosto per scelta, ponderata e reale”.
Nel film – in cui la fotografia di Pasquale Mari, associata alle musiche di Andrea Rocca, serve a creare un’atmosfera da giallo condito di umorismo – il regista riesce a mantenere quasi sempre viva una suspance, data da entrambi i registri – quello della commedia e quello della tragedia – che si accavallano continuamente. Insomma, spesso non sappiamo se ridere o piangere. Per il resto, la scrittura de “La città ideale” è tutta giocata su questo doppio registro, in cui l’umorismo – anche nelle situazioni che si prestano a scivolare nel dramma – insinua il dubbio nelle maglie fittissime delle certezze di Michele.
Luigi Lo Cascio, in realtà, ha scritto una sceneggiatura teatrale (lo ha fatto con il team di co-sceneggiatori Desideria Rayner e Virginia Borgi). E del teatro e della sua scrittura, l’opera conserva molto: un debutto importante, come regista, con alcune digressioni che, forse, indeboliscono la trama. Un cinema in cui l’impegno civile di Peppino Impastato torna per indicare che esistono anche altre priorità, oltre a quelle civili: la bellezza di un’idea rispettosa dell’ambiente, che può diventare realtà comune.
Ilaria Donatio