“I have always been a dreamer”. Ascesa e declino di due metropoli
Detroit e Dubai. Due città a confronto, due simboli di rinascita economica in epoche diverse. Sono i due punti di vista che la regista Sabine Gruffat sceglie di prendere in considerazione per il suo documentario I have always been a dreamer, nell’intento di raccontare quali sono gli effetti di una rapida crescita economica sulla geografia urbana e sulla società di una città “boom & bust”. Da un lato Detroit, centro industriale simbolo della rinascita americana grazie all’epoca fordista del primo Novecento. Dall’altro Dubai, rappresentazione contemporanea di un boom economico senza uguali che ha scatenato imprenditori, architetti, investitori di tutto il mondo in una gara edilizia e immobiliare tuttora in corso.
La regista lavora per contrasti, alternando le riprese delle due città, che diventano l’una il rovescio della medaglia dell’altra. Dopo il forte sviluppo economico durato fino circa gli anni Cinquanta, Detroit piano piano si è spenta, diventando una città senza più interessi dal punto di vista economico per il resto del mondo occidentale, abbandonata a se stessa e lasciata al degrado, sia sociale sia urbano. Le foto di Camilo Vergara hanno in parte illustrato il ritratto di una città ormai inaridita. “Quello che volevo comunicare” spiega la regista in sala “era dimostrare che Detroit non è solo come tutti la immaginano: per questo ho voluto raccontare le storie di quelle persone che abitano in questa città e che con le loro azioni vogliono cambiarla per migliorarla”. Come per esempio la tenacia del titolare di uno dei pochi cinema rimasti aperti in centro, nonostante le difficoltà dovute alla criminalità; l’intraprendenza di alcuni giovani che vogliono dotare la città di pensiline costruite con materiali di recupero per le fermate del bus tuttora inesistenti; la volontà di un giovane falegname di riciclare e riutilizzare in modo utile il legno di quegli alberi che infestano i giardini delle case ormai abbandonate.
Dall’altra parte dell’Oceano, Dubai. Capitale del boom edilizio dal 2007, è letteralmente invasa da grattacieli che ospitano uffici, residenze, hotel. Qui il lusso sembra a portata di mano. La città è diventata il teatro di sperimentazioni architettoniche ardite, nonché dei progetti commerciali più diversi: da un parco vivente con dinosauri realizzati secondo tecnologie sofisticatissime con il sostegno del British Museum, alle piste da sci ricostruite con tanto di neve sintetica lanciata sulle piste ogni giorno. Una città in pieno sviluppo ed espansione che ospita per l’80% abitanti non originari. E, di nuovo, Sabine ci mostra le contraddizioni. Ci racconta lo stile di vita delle fascia più povera di immigrati, indiani o filippini per la maggior parte, che si adeguano a vivere in 10 in una stanza. Ci spiega che non tutto il commercio che passa per il porto di Dubai è legale, al contrario. Ci informa che, nonostante i 50 km di spiaggia naturale, se ne stanno realizzando altri 80 artificiali per sfruttare l’interesse immobiliare degli appartamenti lungo la costa.
Sabine non è interessata alle ragioni che hanno creato questi due estremi: “le città che crescono molto in fretta solitamente hanno anche un decadimento molto rapido, è un processo che capita”. La Gruffat è piuttosto interessata “a dare una visione dall’alto di queste due città, che ben interpretano il boom economico e le sue conseguenze sul territorio, sulla vita delle persone, sulla politica, sulle condizioni di convivenza fra più culture”. Un ritratto riuscito, non solo grazie alle interviste. Le riprese sono spesso silenziose, girate ad altezza uomo, gli occhi di Sabine (sembra di conoscerla da sempre) diventano i nostri. Nessun giudizio, solo il reportage di alcune situazioni che la regista seleziona per noi. Un viaggio che ci suggerisce riflessioni anche complesse, dal livello di influenza dei modelli produttivi sulla società al concetto di capitalismo distruttivo.
Daniela Falchero