Dopo il green, il blue di Pauli
Su gentile concessione di Megliopossibile.it ripubblichiamo la recensione del nuovo libro di Gunter Pauli, “Blue Economy” (Edizioni Ambiente, 344 pp., 25 euro), che inaugura la collaborazione di Gaetano Farina con Greenews.info. E vi poniamo una domanda: in questa fase, ancora giovane e insicura (nei fatti), della green economy non rischia di essere controproducente l’introduzione di nuove espressioni come blue economy? I principi esposti da Pauli sono tutti assolutamente condivisibili, ma perchè creare confusione nel cittadino già sufficientemente disorientato? Potete inviarci i vostri commenti attraverso la pagina di Greenews.info su Facebook.
Nell’ultimo periodo qualcuno ne avrà certamente sentito parlare. E’ uscito anche in Italia un libro intitolato “Blue Economy – 10 Anni. 100 Innovazioni. 100 milioni di posti di lavoro” firmato Gunter Pauli. Di cosa stiamo parlando? Di qualcosa che ha a che fare con la “Green Economy”? In realtà, si tratta di qualcosa ancora più innovativo – almeno nelle intenzioni – e che anzi ritiene le formulazioni “green” già superate.
Gunter Pauli è un imprenditore belga, ecologista e presidente della Zeri Foundation, rete internazionale di scienziati, studiosi ed economisti che si occupano di trovare soluzioni innovative alle principali sfide poste di fronte alle economie e alle società, progettando nuovi modi di produzione e di consumo. Pauli e i suoi sostenitori denunciano un sostanziale fallimento delle pratiche e dei sistemi che hanno caratterizzato la green economy, non tanto sul versante dell’innovazione tecnologica e della sostenibilità ambientale, quanto sulla frontiera della sostenibilità economico-finanziaria.
Le soluzioni proposte sino ad oggi, secondo loro, seppur valide tecnicamente, implicano riconversioni troppo costose sia per le imprese che per i singoli cittadini, tanto da conquistare fette di mercato estremamente limitate e di “nicchia” e perciò non in grado di generare alcun cambiamento di sistema. Senza contare poi che in molti casi, se fanno bene da una parte, fanno male dall’altra, nel senso che difettano nell’analisi globale degli effetti (come per esempio la fabbricazione di veicoli elettrici destinati alla mobilità sostenibile che, però, comporta spreco di energia e inquinamento).
Ovviamente, Pauli e gli studiosi che lo seguono, come i membri del Club di Roma (un “cenacolo” di pensatori dediti ad analizzare i cambiamenti della società contemporanea), non intendono stravolgere, né tanto meno disconoscere, i principi della green economy, dato che ne abbracciano completamente l’auspicata rivoluzione culturale. Si tratta più di una distinzione di marketing “lessicale”: al posto di Blue Economy (il “marchio” inventato da Pauli che serve a creare un’aria di novità per l’opinione pubblica) si potrebbero usare il termine “green economy di seconda generazione” o “green economy 2.0”. Possiamo quindi continuare a discutere e a ragionare tutti di “economia e filosofia verde” senza temere di risultare sorpassati e fuori moda.
Lo scatto in avanti di Pauli è, comunque, un netto scatto in avanti rispetto al passato. La green economy, se si limita all’immissione sul mercato di prodotti e sistemi anche molto costosi e orientati al controllo d’impatto ambientale, rischia l’inefficacia. Secondo Pauli e colleghi, si dovrebbe invece progettare un sistema sociale che, in ogni sua articolazione, nella sua interezza, si regga e si sviluppi con un’economia pulita il più “naturale” possibile.
Ciò che si vuole infondere nelle coscienze, tramite il manifesto della “Blue Economy”, è che la sostenibilità ambientale non deve essere più identificata come un “costo” (in più), ma come un’opportunità, anche e soprattutto imprenditoriale. I programmi, le strategie e le tecnologie ambientali non devono più essere percepite come “politiche di prevenzione e tutela”, tanto meno come un oneroso incomodo per le aziende, ma devono costituire il nostro futuro sviluppo in modo che qualsiasi occasione di business e iniziativa imprenditoriale risulti sempre funzionale al benessere collettivo materiale e immateriale di ogni società ed ecosistema. L’obiettivo è quindi accelerare e massimizzare quella rivoluzione culturale che si è provato a innescare ormai più di trent’anni fa.
Il segreto è “sfruttare” le soluzioni che esistono già in natura, ma non nel senso di “indebitarsi”, come si continua a fare impoverendo gli ecosistemi e trasferendo questo debito di generazione in generazione, senza provare ad annullarlo.
L’ispirazione viene dai sistemi naturali attorno a noi, nei quali, in milioni di anni, “non sono mai esistiti disoccupati e neppure rifiuti”: tutti svolgono un compito e gli scarti degli uni diventano materia prima per gli altri in un sistema “a cascata” in cui niente viene sprecato. L’economia dovrebbe funzionare come la natura, dove non c’è nulla di superfluo e tutto quello che viene prodotto ha una sua funzione. Il che significa soddisfare i nostri bisogni con ciò che abbiamo: gli ecosistemi funzionano con le risorse disponibili. L’economia blu si basa sullo sviluppo di principi fisici, utilizzando tecniche scientifiche come la biomimesi, un settore ancora poco conosciuto che si fonda sullo studio e sull’imitazione delle caratteristiche delle specie viventi per trovare nuove tecniche di produzione e migliorare quelle già esistenti.
Tutto ciò si traduce nell’abolizione del concetto di rifiuto, nel progettare tutto in base al principio che il rifiuto non esiste e che la definizione di un prodotto non può essere legata solo alla sua funzione, ma anche alla ricchezza dei materiali di cui è composto. Il che dovrebbe equivalere, oltre che a rapporto armonioso con la natura, a un incommensurabile risparmio di costi in qualsiasi attività.
I processi che lo stesso Gunter Pauli elenca nel suo manifesto editoriale sono legati a doppio filo alla Natura, alle sue leggi, alle sue risorse e al modo in cui i sistemi naturali le utilizzano, reinvestono e riciclano.
La blue economy è improntata all’innovazione: secondo i suoi propugnatori saperne cogliere le opportunità permetterà al nostro ciclo produttivo di avere degli output maggiori, dei costi inferiori, di creare un capitale sociale che significa benefici per tutti generando soprattutto posti di lavoro. Quest’ultimo aspetto è molto importante, perché solitamente quando si parla di aumentare gli output e ridurre i costi, significa anche tagliare occupazione.
Qualche esempio concreto dallo stesso libro di Gunter Pauli. Le innovazioni presentate, selezionate in un lavoro di ricerca durato ben dieci anni, sono quelle in cui si è riuscito a ridurre al massimo l’utilizzo di risorse e materie prime, migliorando l’impiego di quelle già esistenti e riutilizzandole proprio come succede in un vero sistema naturale. Seppur sperimentate su scala locale, e in attesa di entrare nel circuito commerciale mondiale, si tratta di telefoni cellulari senza batteria che si ricaricano con la sola temperatura del corpo; il riutilizzo del vetro in materiali di costruzione; l’uso dei piloni dell’alta tensione per sfruttare il vento; riutilizzo dei residui di caffè da cui si possono ricavare milioni di tonnellate di funghi, offrendo lavoro a 50 milioni di persone; adesivi derivati dall’amido vegetale e perfettamente efficaci; un nuovo tipo di pacemaker senza batterie (solitamente difficili da riciclare) che funziona sfruttando la temperatura corporea e la pressione generata dalla voce; imitare i sistemi di raccolta dell’acqua di un coleottero per ridurre il riscaldamento globale; l’uso della la seta dei ragni Nephila – che pare sia più forte del titanio e che viene già impiegata per le suture delle operazioni chirurgiche; sostituzione delle lame in metallo dei rasoi “usa e getta” con fili di seta; antibiotici con nessun antibiotico; un sistema denominato “Vortex” per la pulizia naturale delle acque e tanto altro veramente interessante, innovativo e rivoluzionario.
Gaetano Farina