Crisi economica e ambientale: serve un’economia “buona”
“Why did no one see it coming?” Perché nessuno l’ha vista arrivare?
Così, nel novembre 2008, la regina Elisabetta si rivolgeva alla London School of Economics, tempio del pensiero economico mondiale, parlando della crisi. Ne seguiva ovvio imbarazzo e altrettanto ovvio clamore mediatico. Ma nessuna plausibile risposta.
L’episodio, che sarebbe anche comico se non fosse prima di tutto tragico, lo racconta Emanuele Campiglio all’inizio dell’agile saggio “L’economia buona“ (ed. Bruno Mondadori, 2012, pagg. 171, 14 euro).
“Questo è un periodo stimolante per parlare di economia”, esordisce Campiglio, ricercatore presso la New Economics Foundation di Londra e già autore di “Con il mondo sulle spalle. Questioni globali e limiti alla crescita“ (ed. OMP, 2010). Se crisi vuol dire anche opportunità, quello che stiamo vivendo è allora un buon momento per rivoluzionare il nostro modo di produrre e di consumare, a partire dai modelli teorici che hanno diretto le sorti dell’economia globale fino ad oggi. La crisi – sostiene Campiglio, sulla scorta di economisti “alternativi” come Nouriel Roubini, Robert Shiller e Steve Keen – non è arrivata dal nulla, ma l’Accademia non ha saputo (o voluto) riconoscerla, accecata da ingombranti paraocchi teorici. E se le teorie economiche soffrono di uno scollamento dalla realtà, la finanza dal canto suo ha prosperato in un mondo “autistico” di titoli derivati e subprime, diventando “una gigantesca entità a sé stante impossibile da controllare” e smarrendo il suo ruolo originario di appoggio all’impianto produttivo.
Di fronte a questa sorta di delirio di onnipotenza, è urgente tornare con i piedi per terra. L’economia “buona” è innanzitutto un’economia realistica, che tenga conto dei limiti dello sviluppo, delle risorse non infinite del pianeta e di un’idea di uomo ben più complessa e sfaccettata rispetto all’automa materialista riassunto nel concetto, caro alle teorie classiche, di homo oeconomicus.
È necessario allora ripartire da quelli che oggi sono i due problemi fondamentali dell’economia mondiale: l’emergenza ambientale e i limiti sociali (stagnazione dei livelli di benessere nei paesi occidentali e degrado del tessuto di relazioni) di un sistema fondato sul dogma della crescita. Questioni apparentemente distanti, ma in realtà strettamente connesse e che troverebbero soluzione in “una visione sistemica alternativa, che colleghi tutti i tasselli necessari”: il cosiddetto modello della decrescita. Consumo critico e collaborativo, green economy, etica della sobrietà, responsabilità d’impresa, rivoluzione dal basso, autoproduzione sono le parole d’ordine di una transizione – che non solo si profila come inevitabile, ma appare sempre più desiderabile – verso un sistema che “coniughi prosperità, stabilità, giustizia sociale e utilizzo intelligente delle risorse”.
Le direzioni da intraprendere verso tale cambiamento sono due, entrambe fondamentali: “dal basso”, attraverso i comportamenti individuali, e “dall’alto”, con politiche nazionali e internazionali integrate. Campiglio offre una sintetica ma completa panoramica dei due approcci, descrivendo e analizzando esempi di azioni micro e macro: dal movimento per la decrescita felice di Maurizio Pallante all’economia del dono di Serge Latouche, dal consumo critico alla rivoluzione organizzativa a livello locale delle Transition Towns, dalle “banche del tempo” alle varie e spesso ingegnose iniziative per la condivisione di beni e servizi, dai nuovi indicatori di sviluppo come la Felicità Interna Lorda al dibattito internazionale sulla Carbon Tax per disincentivare i comportamenti inquinanti, fino alla Terza Rivoluzione Industriale teorizzata da Jeremy Rifkin e adottata, nei suoi punti programmatici, dal Parlamento Europeo.
Insomma, una fotografia dello stato dell’arte, che ha però il pregio di non dar nulla per scontato, a cominciare dalle origini della crisi (dalla bolla immobiliare americana in avanti). L’economia buona non è un semplice compendio di buone pratiche, ma un saggio-manuale che ha l’ambizione di fornire gli strumenti (almeno alcuni) per capire la realtà. La platea del dibattito – dice Campiglio – si è infatti oggi allargata: “le questioni economiche non sono più prerogativa di un circolo ristretto di esperti, ma sono aperte alle interpretazioni di singoli cittadini, comunità territoriali, organismi della società civile, studiosi e policy makers”, e “la formazione di un nuovo sistema economico non può che coinvolgere la società in tutta la sua articolazione”. Conviene, dunque, che non ci facciamo trovare impreparati. Del resto, per recuperare quel buon senso che la regina Elisabetta si sarebbe aspettata dal gotha dell’economia internazionale, non solo gli accademici devono scendere dalla torre d’avorio, ma anche la “società civile” deve abbandonare il timore reverenziale verso la sfera dell’economia e imparare a maneggiarne gli strumenti.
Giorgia Marino