Bioeconomia: risorse rinnovabili e legami con il territorio per l’industria del futuro
“O l’economia diventa una bioeconomia o non avrà alcun futuro”. Così scrive Gunter Pauli, economista e presidente di Novamont, nella prefazione di “Bioeconomia” (Edizioni Ambiente, pp. 176, 18 euro), un saggio scritto a sei mani da Beppe Croce, Stefano Ciafani e Luca Lazzeri.
L’attuale sistema di produzione e consumo è dipendente in modo eccessivo da materie prime di origine fossile e dalle loro trasformazioni chimiche. Tuttavia, negli ultimi anni, stiamo assistendo ad un progressivo, rivoluzionario, passaggio dalla petrolchimica a processi che utilizzano come materie prime prodotti di origine vegetale. Il termine “bioeconomia”, coniato da Nicholas Georgescu-Roegen, indica proprio questa via alternativa tra distruzione irreversibile delle risorse e concetto di decrescita: una nuova economia con la capacità – indicata dal prefisso “bio” – di instaurare un rapporto positivo con la società e il territorio da cui trae le risorse di cui ha bisogno e su cui colloca le proprie attività e, allo stesso tempo, di creare occupazione, profitti e innovazione.
L’energia libera a cui l’uomo può accedere proviene da due fonti distinte: la prima fonte è lo stock dei giacimenti minerari nelle viscere della Terra; la seconda è un flusso, quello delle radiazioni solari intercettato dalla Terra. Sempre più spesso, ormai, si sente affermare che non è più sostenibile continuare ad attingere allo stock di riserve fossili del pianeta con la stessa intensità raggiunta in questi ultimi anni e che il passaggio ad altri tipi di fonti, rinnovabili e più sostenibili, non è ormai un’opzione ma un atto necessario. Tuttavia, il punto focale non è rappresentato da una semplice sostituzione delle materie prime, da fossili a biologiche, ma implica un salto culturale che vada a rivoluzionare l’intero processo di consumo, a partire dalle efficienze dei processi fino alla costruzione di una consapevolezza del consumatore riguardo al rapporto di questi processi con gli ecosistemi naturali.
Le risorse utilizzate della bioeconomia sono le risorse “biologiche”, un giacimento molto ricco e diversificato fatto di sostanze rinnovabili – grazie allo straordinario meccanismo della fotosintesi – quali piante, colture erbacee, sottoprodotti dell’agroalimentare, funghi, lieviti, batteri, alghe, e anche la frazione organica dei rifiuti urbani. Tuttavia, utilizzare risorse organiche implica avere a che fare col suolo, col problema della produzione di cibo, col futuro della biodiversità vegetale e animale sul pianeta. Quando spiega questo passaggio, che rappresenta il più importante dell’intero saggio, l’autore Beppe Croce è molto chiaro: “Se pensassimo di intervenire con le logiche attuali dell’agrobusiness e dei mercati mondiali delle commodities, abbiamo già fallito in partenza”.
Le risorse biologiche si contraddistinguono da quelle della petrolchimica per tre vantaggi cruciali: sono potenzialmente non esauribili, in genere inquinano meno dei loro omologhi fossili e sono producibili sul territorio garantendo, quindi, maggiore autonomia economica alle comunità. La “chimica verde” è, pertanto, il sistema di conoscenze e di tecniche che ci permette di trasformare queste molecole in bio-prodotti utilizzabili per le nostre necessità quotidiane: farmaci, polimeri, detergenti, solventi, prodotti fitosanitari per l’agricoltura biologica.
Per far diventare la bioeconomia una realtà è necessario agire su diversi fronti: da una parte nel ridurre gli sprechi alimentari, dall’altra nell’incrementare l’efficienza di utilizzo dei suoli. E il vero problema non è tendere verso l’aumento delle rese agricole, quanto piuttosto risolvere l’inefficienza del coltivare le piante per utilizzarne, spesso, solo una minima parte (ad esempio il seme) quando invece una qualsiasi pianta è uno scrigno di molecole da cui poter estrarre un alto valore aggiunto.
In questa corsa verso l’innovazione e la sostenibilità, l’Italia occupa un’ottima posizione, superata forse solo dagli olandesi. Le nostre eccellenze spaziano dal campo dei biopolimeri (Novamont) ai biocarburanti di seconda generazione (Mossi&Ghisolfi), oltre a una rete di piccole e grandi bioraffinerie che stanno prendendo piede proprio nei vecchi siti in disuso dove la chimica tradizionale ha lasciato in pesante eredità un’immensità di terreni contaminati. Un’altra sfida di notevole importanza, afferma Croce, “potrebbe essere il rilancio di Porto Marghera, se Eni rinunciasse, come spero, all’idea di produrre biodiesel da olio di palma e puntasse su progetti più sostenibili, come il riuso di oli esausti”. Ovviamente, tutto questo può diventare realtà solo se saranno sviluppate politiche di supporto adeguate.
Per passare ad un sistema di bioeconomia, quello che bisogna innanzitutto ottenere è una cascata di prodotti e non di rifiuti, come avviene oggi. Ma non è pensabile vincere questa sfida solo dal lato della produzione e della distribuzione: deve cambiare anche la domanda, ossia i nostri stili di consumo. Mettendo le risorse rinnovabili e i rifiuti alla base dei prodotti di domani si apre una straordinaria sfida economica ed ecologica, e noi, consumatori, dobbiamo per primi essere pronti a raccoglierla.
Elisabetta Redavid