Rivoluzione bio: domani è possibile
Ripubblichiamo l’articolo della nostra redattrice Ilaria Donatio, classificatosi al terzo posto del premio giornalistico Comunicare Bio.
Esistono cinque buoni motivi per passare al cibo biologico. Ce lo assicura un libro pubblicato da Rodale Inc. (lo stesso editore della rivista Men’s Health) che, a partire dal titolo, sembra lanciare una vera e propria sfida politica e programmatica: il “Manifesto Biologico: come l’agricoltura biologica può guarire il nostro pianeta, alimentare il mondo e tenerci al sicuro”. Dunque, i benefici sulla salute del cibo bio, si conterebbero sulle dita di una mano ma avrebbero conseguenze positive su tutta la nostra vita: gli alimenti biologici contengono maggiori nutrienti rispetto ai cibi coltivati in modo convenzionale (grazie agli antiossidanti); determinano una maggiore fertilità per via dell’assenza dei pesticidi; rendono più forte il nostro sistema immunitario perché non hanno prodotti chimici; ci evitano possibili aumenti di peso di cui sono colpevoli i prodotti chimici agricoli, interferendo con i nostri livelli ormonali; a differenza degli alimenti geneticamente modificati, quelli biologici sono stati ampiamente testati, visto che esistono da migliaia di anni.
Secondo i dati dell’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare, produrre e mangiare biologico non è più una scelta di nicchia: sia l’offerta sul mercato che la richiesta sono aumentate del 4 per cento dal 2008 al 2009. Vale a dire: non è più una moda per pochi ricchi ma un cambiamento culturale che si traduce in stili di vita e di consumo che indica un orizzonte possibile e ancora più democratico di quanto lo sia oggi. Questo significa, però, vincere una scommessa: quella di sviluppare un modello di produzione che eviti lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, in particolare del suolo, dell’acqua e dell’aria, utilizzando invece tali risorse all’interno di un modello di sviluppo che possa durare nel tempo. Parliamo di un metodo di coltivazione e di allevamento che ammette solo l’impiego di sostanze naturali, presenti cioè in natura, escludendo l’utilizzo di sostanze di sintesi chimica (concimi, diserbanti, insetticidi): nulla è lasciato al caso naturalmente dal momento che parliamo dell’unica forma di agricoltura controllata in base a leggi europee e nazionali e non ci si basa, dunque, su autodichiarazioni del produttore ma su un preciso Sistema di Controllo uniforme in tutta l’Unione Europea. E dal primo luglio, avremo l’Eurofoglia: il marchio introdotto dall’Unione che comparirà su tutti gli alimenti pre-confezionati biologici, prodotti in uno dei ventisette Stati membri del Vecchio Continente. Sarà una foglia disegnata dall’unione di dodici stelle ed è stata scelta tra i circa tremila e cinquecento simboli ideati dagli studenti di arte e design in un concorso organizzato dalla direzione generale dell’Agricoltura e dello sviluppo rurale della Commissione europea. Un modo per risolvere, in un unico logo verde, la confusione di legislazione e di lingua. Un altro passo avanti.
Se ne sono accorte anche le istituzioni nazionali, in genere (e purtroppo) molto lente a registrare i cambiamenti: quest’anno è stato tutto un pullulare di eventi e di manifestazioni all’insegna del bio. Come Piazze Bio, la manifestazione organizzata da Ministero delle politiche agricole e da quello dell’Ambiente, che intendeva promuovere “la fiducia del consumatore” verso il mangiare biologico: così in 18 regioni italiane, i produttori hanno accolto gli amanti del bio nelle loro aziende per raccontare il proprio lavoro tramite visite guidate, laboratori, degustazioni, spettacoli, e concerti. Perché di questo si tratta: promuovere e diffondere la cultura biologica, significa, innanzi tutto, valorizzare e difendere questo mercato e, dunque, sostenere prima di tutto i produttori perché i costi di coltivazione e allevamento biologici sono più alti rispetto alle produzioni tradizionali industriali. E per due ragioni: i fertilizzanti naturali costano di più rispetto a quelli chimici perché sono più complessi da ricavare e la scelta di non utilizzare diserbanti, per bloccare la crescita delle piante infestanti, comporta un intervento di tipo manuale che ha un costo superiore rispetto ad un lavoro compiuto con l’utilizzo di macchinari. Noi partiamo anche avvantaggiati secondo Coldiretti: l’Italia, infatti, è il primo paese in Europa per superfici e numero di operatori impegnati nell’agricoltura biologica, che producono preparano e commercializzano i prodotti.
E che i consumatori siano alla ricerca della sicurezza ma anche più sensibili a stili di vita attenti all’ambienti, lo testimoniano le iniziative che proprio in questi giorni fioriscono sul territorio. Partendo dalla capitale, è stato inaugurato il primo orto comunitario di Roma, nel quartiere della Garbatella: un terreno che in tutto misura quaranta metri quadri – per i prossimi quattro anni – fornirà ai cittadini romani che potranno coltivare direttamente negli appezzamenti predisposti, prodotti rigorosamente biologici, a chilometri zero. In tempi di crisi, perché non puntare su frutta e verdura a buon mercato e di qualità? Il “menù chilometri zero”, che incentiva la preferenza, in mense, fast food e ristoranti, di prodotti locali, con un doppio risultato: quello di porre un freno alle emissioni del trasporto alimentare e di combattere il caro-prezzi delle merci destinate alle nostre tavole, è già una realtà in Veneto e in Calabria. Le amministrazioni di queste due regioni, così distanti tra loro, hanno introdotto agevolazioni per quei ristoranti che acquistano prodotti locali. Dunque: prezzi contenuti (un pranzo completo viene a costare sui 25-30 euro circa), maggiore freschezza e qualità dei prodotti, non sottoposti a lunghi viaggi e poche calorie con un impatto positivo sulla salute, dovuto all’utilizzo di meno conservanti e alla genuinità dei prodotti agricoli. Stesso discorso vale per le bevande: l’utilizzo di acqua del rubinetto filtrata permette di non acquistare ingombranti bottiglie di plastica, eliminando l’accumulo di rifiuti. E se in Sardegna, proprio questa settimana, sono stanziati fondi per 770 mila euro a favore delle aziende del settore e di politiche di diffusione e dei prodotti derivanti da agricolture biologiche, in Puglia, oggi (venerdì 25 giugno), si costituisce ufficialmente il network transanazionale del BiolMed: progetto comunitario per la valorizzazione della competitivita’ dell’olivicoltura biologica mediterranea, che coinvolge Italia, Spagna, Malta e Grecia.
Sognando la Dallas del futuro. Lì alcune aziende progettano di costruire il primo blocco pienamente sostenibile. E dopo aver consultato i designer di 14 paesi diversi, sono stati scelti tre vincitori. Il progetto è del tutto nuovo e rivoluzionario: non si tratta di qualche sporadico palazzo con qualche pannello solare ma ogni alloggio dovrebbe essere in grado di auto-prodursi frutta e verdura che serve per la sussistenza dell’intero insediamento, ma anche l’energia elettrica che, ovviamente, sarà generata da fonti rinnovabili (solare termico, fotovoltaico ed eolico). Nelle valli tutto intorno alla città, solo alberi e vegetazione, oltre a un campo per il pascolo del bestiame, mentre lungo i lati degli edifici pubblici saranno costruite le serre. Una sorta di sistema integralmente bio ed ecosostenibile, coerente al proprio interno e rispettoso dell’eco-sistema. Forse, fin troppo perfetto.
L’agricoltura può dare una grossa mano nella lotta ai cambiamenti climatici: lo assicurano i britannici della Soil Association (che ha come sottotitolo l’esplicativo “healthy soil, healthy people, healthy planet”) che subito prima del summmit di Copenaghen, ha pubblicato una relazione in cui rilevava come l’agricoltura biologica fosse “l’anello mancante” al Cop15 danese (la quindicesima Conference of Parties, sotto l’egida della Conferenza Stutturale delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico). La relazione sostiene che una conversione globale all’agricoltura biologica potrebbe recuperare fino all’11 per cento delle emissioni globali di gas a effetto serra e che l’agricoltura biologica debba essere considerata come parte di un più ampio ripensamento del nostro sistema alimentare distruttivo. È lo stesso direttore dell’associazione Peter Melchett a spiegarlo: “Il cambiamento climatico vuol dire che, come al solito, nel nostro cibo e nei sistemi agricoli non c’è più una scelta: per ridurre la deforestazione tropicale e massimizzare il recupero del carbonio nel suolo è necessario passare ad un’alimentazione più sana basata su prodotti di stagione non trasformati e carne proveniente da animali nutriti da erba e con moderazione e non di pollame ad alta intensità nutrito con carne di maiale”. Come a dire: si può anche non essere dei fan del biologico, ma certo è che l’agricoltura può dare una grossa mano per combattere i cambiamenti climatici. Non solo. Nell’anno mondiale della biodiversità, come è stato dichiarato dall’Onu il 2010, scegliere un modello di sviluppo informato dai principi dell’agricoltura biologica, vuol dire anche salvaguardare la biodiversità e cioè la presenza e la protezione di specie e varietà differenti di piante e animali sul territorio.
Nutrire il mondo è facile. Lo sostiene Colin Tudge, giornalista londinese specializzato in alimentazione e agricoltura, che ha scritto per Slow food editore, un piccolo “capolavoro di divulgazione scientifica”, come è stato definito il suo Feeding People is Easy, libro-denuncia dei guai e delle contraddizioni che affliggono l’attuale sistema di produzione alimentare. “Possiamo alimentarci per sempre”, sostiene l’autore, “senza distruggere il resto del mondo”. Come? “L’agricoltura globale deve essere in grado di produrre un’abbondanza di vegetali (frutta, verdura e, soprattutto, legumi, cereali e tuberi) e poca carne, rispettando la naturale biodiversità del pianeta”. In una frase, si tratta di dare vita a un’agricoltura “illuminata” e Tudge indica anche una strada possibile: quella di costituire il “Worldwide Food Club”, una rete di contadini e professionisti (cuochi, panettieri, produttori di vino e via dicendo), dediti alla produzione sostenibile di cibo di qualità, e di consumatori disposti a pagare il giusto prezzo per cibo così prodotto. Ogni linguaggio ha la sua grammatica: il saggio Sementi e diritti Stefano Masini e Cinzia Scaffidi, sempre per i tipi di Slow food, considera l’agricoltura industriale e quella tradizionale “come due modi diversi di esprimersi” per cui, mentre l’agricoltura industriale utilizza prevalentemente i modi singolari e poche regole e standard, quella tradizionale predilige i modi plurali e la diversificazione. E come per la rivoluzione avvenuta “in ambito informatico con l’avvento del software open source e in ambito creativo con le nuove tecnologie che hanno consentito la condivisione delle creazioni in modalità wiki”, gli autori suggeriscono un’altra rivoluzione possibile e globale: quella dell’alfabeto bio.
Ilaria Donatio