“La birra è un prodotto della terra”. Intervista a Teo Musso
Angelo Gaja sta al vino come Teo Musso sta alla birra. Credo che questa equazione tutta piemontese – pur con gli inevitabili limiti della sintesi (che non so se i diretti interessati sarebbero disposti ad accettare) – possa agevolare i cultori delle due bevande nel paragone e nel mutuo riconoscimento delle caratteristiche comuni a questi due pionieri: tenacia, coraggio e ossessiva ricerca della qualità.
C’è però una cosa che tormenta Teo, mitico e sfuggente fondatore del birrificio Baladin di Piozzo (CN), profeta di quella rivoluzione della birra artigianale che ha portato, in pochi anni, i micro-birrifici italiani a quota 350. Mentre nell’immaginario collettivo il vino è, senza dubbio, un prodotto della terra, la birra è, per i più, semplicemente un drink.
“E’una cosa bruttissima, perché la birra è al 100% un prodotto della terra!”, rivendica Teo. “E’un peccato che sia stata la stessa industria della birra, nel secolo scorso, a cancellare questo riferimento, vendendo l’immagine, ovvero lasciando scemare sempre più quella che era la caratterizzazione originaria del prodotto. Il processo di lavorazione della birra è un processo molto sano e naturale, oserei dire molto [la “O” di Teo qui si fa eloquentemente mooolto larga, N.d.R.] più pulito di quello del vino.”
D) Uno dei luoghi comuni più diffusi è che la birra sia “tutta uguale”, mentre del vino esistono diverse varietà… Come rispondi?
R) La birra ha, almeno quanto il vino, la possibilità di essere variegata negli stili e nelle interpretazioni. E’ un prodotto di fermentazione decisamente eclettico. Purtroppo l’identificarla in un prodotto solo (una bionda amara, trasparente, da bere fredda) l’ha standardizzata e ha fatto perdere completamente la coscienza che questo possa essere un prodotto legato al territorio. La “rivoluzione culturale”, che ho voluto innescare 15 anni fa con il progetto Baladin, è stata quella di concepire e comunicare la birra in un modo nuovo dove, oltre alla propria passione di produttore, si cerca di trasmettere la ricerca sulla materia prima, la territorialità, la differenziazione del prodotto finale. Il salto è stato far comprendere che non c’è solo la birra, ma ci sono le birre. Del resto se io analizzo la mia esperienza di 3.000 fermentazioni seguite personalmente, non ho mai visto due fermentazioni uguali!
D) Pensi che adesso, che l’attenzione del consumatore per i prodotti sani, sostenibili e a km.0 è molto alta, anche i grandi produttori torneranno a parlare di birra come prodotto della terra?
R) Un passo indietro in questo senso lo faranno sicuramente. Sono obbligati a farlo se vogliono conquistare quote di mercato. Soprattutto i marchi italiani che, per altro, non sono più di proprietà italiana da tempo e sono prodotti, per l’80% a partire da materie prime che non sono italiane… La produzione dei microbirrifici oggi vale l’1% del mercato nazionale, che sembra poco, ma in realtà inizia ad essere un numero significativo. Le mie previsioni sono che, nell’arco di 10 anni, si arriverà ad un 5%. L’industria della birra sarà dunque stimolata a ridare carattere, natura e italianità vera ai propri prodotti. La birra artigianale, o birra viva, è un fenomeno che si porta dietro un pubblico di consumatori molto attenti, anche per tutto quello che è la sostenibilità ambientale. E’un vero e proprio filone di pensiero.
D) Tra i circa 350 birrifici artigianali presenti in Italia quali ti risulta che siano gli interventi più diffusi per ridurre l’impatto ambientale?
R) Molti stanno lavorando sulla territorialità e sul km.0, qualcuno sull’approvvigionamento di energia da fonti rinnovabili, ma una nota dolente che sento di dover denunciare (non per cattiveria, ma per stimolare il cambiamento) è che pochissimi sono dotati di impianti di bio-depurazione degli scarichi. E’una questione di coerenza con quello che rappresentiamo. Anche perché, come produttori artigianali, godiamo e siamo premiati, dai nostri consumatori, da un’anomalia unica nel nostro paese: per la prima volta l’italiano è nazionalista, è disposto cioè a pagare di più per una birra artigianale italiana che per una straniera! E’un elemento di grande fiducia che non va tradito. Voglio essere più chiaro: i nostri consumatori non vanno presi per il c…o! Mi dispiacerebbe veramente molto che tutto questo crollasse per il vizietto di pochi di fare i furbi…
D) Nel tuo intervento da Eataly hai parlato di colonizzazione del luppolo, mi puoi spiegare meglio cosa intendi?
R) E’una mia teoria, ma credo che corrisponda abbastanza al vero… In Italia nel primo Novecento sono nate molte produzioni di birra, tutte figlie di una grande scuola, quella dei mastri birrai di Pedavena (vicino a Feltre, nel bellunese), che era un ramo della scuola tedesca di Weihenstephan, che ha dato dunque l’impronta a tutto il mondo della birra italiana del tempo. La cosa incredibile è che questo abbia impedito anche solo di pensare alla possibilità di realizzare, in Italia, un’area dedicata alla coltivazione del luppolo. Perché le lager e le pils, che sono l’espressione della filosofia tedesca della birra, sono caratterizzate non dal ceppo di lievito, o dalla fermentazione o dal malto, che sono sempre gli stessi, ma dal gioco e dall’equilibrio dei luppoli, che sono quelli della zona di produzione tedesca dell’Hallertau, in Baviera. La mia esperienza è che quando sposti una pianta di luppolo da un terroir all’altro (per usare un termine del settore vitivinicolo) cambiano le aromaticità. Per questo sto portando avanti, grazie al supporto di Tecnogranda, una sperimentazione di luppoli diversi in terreni diversi, in Piemonte. E’il mio sogno di creare la vera birra italiana!
D) Quanto dovremo aspettare?
R) Se la sperimentazione andrà bene, nel 2015…
L’Expo 2015 di Milano potrebbe avere una nuova, insperata eccellenza alimentare da presentare al mondo. Aspettiamo fiduciosi!
Andrea Gandiglio