Ecologia e moda. Dalla “guerra delle pellicce” alla riscossa di Asia e Africa
E’notizia dei giorni scorsi l’eredità milionaria che il dottor Vittorino Bellomo, morto senza eredi a Sclaunicco, in provincia di Udine, ha lasciato all’omonima Fondazione per il Bene degli Animali. Gli animali, si sa, insieme agli OGM e al nucleare, sono uno di quegli argomenti “ecologici” che scatenano gli animi e dividono nettamente il genere umano in fazioni, pro o contro. Prima l’uomo o prima l’animale? E’successo anche nel mondo della moda, a partire dalla “guerra delle pellicce” degli anni ’60- ’80 che, secondo molti, aprì per la prima volta il mondo del fashion al confronto con i temi etici e ambientali.
Una delle pioniere fu Vivienne Westwood. Da studentessa, in Inghilterra, la Westwood vende direttamente sulle bancarelle di Portobello Road, nella periferia di Londra, gioielli creati dalle sue stesse mani e da quella fantasia provocatrice che caratterizzerà la sua futura carriera di stilista. La relazione con Malcolm McLaren, manager dei Sex Pistol, la porterà ad aprire la bottega destinata a divenire famosa in tutto il mondo e simbolo della sua eccentricità, con la celebre insegna dell’orologio che gira al contrario. La Westwood contribuirà più di altri ad imporre lo stile punk negli anni ’70 con ispirazioni che provenivano dalla strada e da un certo “ribellismo” giovanile. Successivamente, creerà stravaganti articoli, rimodellando antichi elementi di sartoria femminile del Seicento e Settecento in chiave moderna. Il suo impegno sociale e politico passa dunque nelle sue creazioni di moda, compreso il rispetto per gli animali e la natura, che si trasforma spesso in “ecopellicce“, un termine destinato a imporsi nella moda dell’epoca. La “pelliccia ecologica” è infatti un tessuto che imita la pelliccia di animale, ricorrendo a fibre naturali (come il cotone), artificiali (la viscosa) e sintetiche (acrilico) e che viene colorato e stampato a somiglianza dei manti naturali.
In Italia è Marina Ripa di Meana, già stilista e scrittrice del best seller “I miei primi 40 anni” (1984) che, nel corso dei suoi “secondi 40 anni”, fa scalpore facendosi fotografare completamente nuda su manifesti promossi dall’International Fund for Animal Welfare, con la scritta provocatoria: L’unica pelliccia che non mi vergogno d’indossare. Da allora, le pellicce ecologiche – che dagli anni ’60 avevano iniziato a diffondersi nei canali di una parallela “moda alternativa“, per via della causa animalista, del minor impatto ambientale e, non ultimo, dei costi decisamente inferiori – entrarono a pieno titolo nel dibattito etico sull’opportunità o meno di sostituire quelle di provenienza animale. In un ambiente che tradizionalmente non mostrava particolare sensibilità ai temi etici, quale appunto quello dell’alta moda e del suo pubblico di riferimento, si insinua dunque il tarlo della filosofia animalista e ecologica.
La guerra delle pellicce esplode. Da una parte, le sostenitrici all’ultimo sangue dello spirito modaiolo tradizionale, incarnato da ermellini e visoni sacrificati in nome della bellezza, dall’altra l’affacciarsi prepotente di una nuova generazione di adepte del fashion in salsa sintetica. Uno scontro prevalentemente femminile e per certi versi paradossale: le prime a favore di un prodotto naturale ma crudele con gli animali, le seconde per un prodotto animal-friendly ma di origine sintetica (petrolifera).
Come riferimento di queste ultime si afferma anche Stella McCartney, figlia di Paul, la stilista britannica che all’uso di pelli e pellicce ha dichiarato la sua personale guerra fin dagli esordi nel mondo della moda. Ecco, quindi spuntare nuovi capispalla e accessori vari in pelo sintetico che vanno ad affiancarsi alle “pellicce ecologiche” vere e proprie.
Fra i nuovi seguaci scende poi in campo anche Re Giorgio. Non quello britannico, in questo caso. Nella sua linea di pellicce ecologiche Armani propone diversi capi giovani e trendy casual, quali i modelli corti beige, testa di moro e neri o i montoni blu notte e le giacche corte military green. Rachel Zoe riproduce invece fedelmente un elegante cappotto di cammello in fibra rigorosamente di ecopelliccia. Miss Sixty ricalca lo status symbol dell’alta moda, proponendo cappotti ecologici su toni che vanno dal grigio al nero. Da Guess giungono pellicce candide, dal pelo ecologico e dai colori candidi del latte, oppure, in alternativa, riproduzioni fedeli di leopardi e giaguari. Non manca infine l’adesione raffinata di Liu Jo, che propone gilet con risvolti in eco-pelliccia striati marrone e verde.
E il mondo vegetale? La conquista della sensibilità per “l’altro regno della natura” arriva dopo e per questo è ancora in piena corsa. Marchi per il grande pubblico, a partire da H&M, si schierano progressivamente a favore dell’ecosostenibilità e del rispetto per il mondo animale e vegetale, senza rinunciare allo status symbol della moda trendy, ma iniziando a inserire il cotone organico, prodotto senza l’uso di pesticidi e fertilizzanti di sintesi.
Dopo la triste parentesi che portò l’impero britannico a distruggere l’economia dei piccoli artigiani della tessitura a mano dell’India, nel secolo XIX, oggi il commercio equo e solidale si impone anche nel mondo della moda, proprio a partire dall’Asia. One Green Elephant rappresenta oggi, in questo campo, uno dei casi studio più interessanti, per il tentativo di coniugare lo stile asiatico alle esigenze occidentali: un mix di tradizione, originalità, e rispetto per l’ambiente che tenta di sfondare in tutto il mondo. Il brand utilizza esclusivamente cotone biologico e ripercorre l’intera filiera per assicurarsi che nessun danno sia perpetrato all’ambiente dai propri fornitori.
One Mango Tree ha invece iniziato la sua attività in Uganda, nel cuore dell’Africa. Identifica gli artigiani e li inserisce nel proprio programma sartoriale, garantendo loro condizioni di vita altrimenti impensabili nel contesto di quella realtà. Anche Alternative Apparel è un marchio conosciuto per il suo impegno nella responsabilità sociale: utilizzare cotone biologico senza pesticidi e coloranti atossici, non gli impedisce di essere identificata come fashion brand, a riprova di un cambio di sensibilità del pubblico della moda internazionale. Sempre dall’Africa proviene la società di calzature Sole Rebels, fondata dall’etiope Bethleham Tilahun Alemu, che ha saputo imporsi come maggior brand di calzature africane, pagando i suoi dipendenti 4 volte più del salario minimo, assicurando la relativa copertura sanitaria ed utilizzando solo materiali ecologici. Una nuova alba anche per il continente nero?
Redazione Greenews.info