Barilla: lavoriamo per una sostenibilità di massa
Libero, pulito, sostenibile. Il cibo è, spesso, tutto questo, quando potrebbe semplicemente essere biologico. Ma perché il bio, ancora sul nascere della sua corsa e crescita, inizia a patire il “fuoco amico”? E’ perché suscita invidie e “sindrome della volpe e l’uva”, o perché il disciplinare è migliorabile e troppo burocratico, la certificazione troppo costosa, gli imprenditori italiani troppo insofferenti alle regole, le rese troppo basse? Ce lo siamo chiesti ripetutamente, nelle ultime settimane, da quando Greenews.info ha iniziato un’inchiesta e avviato un dibattito, tra gli operatori del settore, su “biologico e dintorni”, in cui abbiamo registrato, ad oggi, le posizioni di Federbio, Slow Food, AIAB, CCPB, Città del Bio e del “convitato di pietra”, il patron di Eataly, Oscar Farinetti, citato (e temuto, amato o odiato) da tutti per la sua “potenza di fuoco” economica, ma di cui non ci è stata ancora data la possibilità di raccogliere la testimonianza diretta. Al centro il fenomeno che abbiamo definito dell’“inquinamento verbale” entro gli stessi confini della green economy, che genera, a nostro avviso, una certa confusione nel consumatore, con termini che non significano nulla di chiaro né verificabile.
A riflettere su questi temi abbiamo chiamato, questa volta, Luca Fernando Ruini, Responsabile Sicurezza, Ambiente, Energia di Barilla, intervistato ieri a Milano, in occasione del quarto forum internazionale del BCFN, il Barilla Center for Food and Nutrition. “Ho cominciato nel 1995 a occuparmi di ambiente in azienda, ma l’industria agroalimentare e agroindustriale si è occupata di sostenibilità tardi, se pensiamo che la prima Giornata Europea dedicata alla sostenibilità legata al mondo agroalimentare è stata organizzata nel 1999. Prima di allora non si parlava affatto di questi temi. Paradossale, se si riflette come oggi le scelte alimentari combattano e influenzino i cambiamenti climatici. Il fatto che io possa decidere di mangiare di più o di meno alcuni alimenti incide e riduce anche di un terzo l’impatto ambientale”, afferma Ruini.
“Parlerei comunque di agricoltura sostenibile – insiste il managar Barilla – Abbiamo iniziato a parlare di agricoltura sostenibile quando abbiamo iniziato a ragionare in termini di ciclo di vita del prodotto. Ma abbiamo iniziato a parlare di sostenibilità anche quando abbiamo scelto di farci affiancare da esperti agronomi. Così oggi la ricerca trova applicazione concreta in tutti i passaggi della filiera: dalle materie prime alla produzione, dal confezionamento alla distribuzione. Il raggiungimento di un’agricoltura più sostenibile avviene grazie alla graduale adozione di modelli agricoli in grado di: produrre cibo sano e di buona qualità; essere ‘in equilibrio’ rispetto all’ambiente naturale; sostenere l’impatto dei cambiamenti climatici; evolversi in armonia con i contesti sociali dei quali devono contribuire a sostenere lo sviluppo. Insomma oggi l’obiettivo è ottenere colture corrette, con meno fertilizzanti e più nutrimento. In questo modo si riducono i costi e l’impatto ambientale del 30%.”
“E’ partito così, valutando i parametri economici, produttivi, agronomici, ambientali e di sicurezza alimentare – prosegue Ruini – il nostro progetto multidisciplinare, che vuole identificare, per il frumento duro, i sistemi agricoli sostenibili nelle singole aree, con l’obiettivo di innalzare sia la qualità che la quantità della materia prima; ma che vuole anche validare, sul campo, i vari sistemi colturali individuati nei diversi territori di produzione nazionali”.
Il punto, facciamo però presente, è che, secondo la normativa europea e italiana, l’agricoltura biologica è l’unica forma certa (e certificata) di agricoltura sostenibile dal punto di vista ambientale. “No, non la penso assolutamente così”, replica Ruini. “Esistono tante tipologie di agricoltura: biologica, appunto, industriale, OGM. In mezzo c’è l’agricoltura che cerca di ridurre la chimica per poter ottimizzare i risultati e adattarsi al territorio. Perché, bisogna dirlo, l’agricoltura biologica ha rese basse. Noi dobbiamo puntare ad una agricoltura sana per tutti, fatta da chi ha competenze vere. Nulla c’entra il mal sopportare il fatto di assoggettarsi alle procedure di controllo, né ci spaventano i test e le garanzie per i consumatori. Noi agiamo per rendere la sostenibilità di massa”.
Il forum Barilla ha tirato in causa, a questo riguardo, anche la competizione con i biocarburanti “di prima generazione”. Oltre il 6% dei cereali prodotti nel mondo – secondo i dati OECD/FAO del 2011 – diventa infatti biocarburante. E nel 2020 le derrate alimentari destinate a produzione agroenergetica saranno oltre il 7%. ”Un paradosso del nostro tempo che non possiamo piu’ permetterci se 868 milioni di persone non hanno cibo”, ha detto Riccardo Valentini, membro del panel intergovernativo sul cambiamento climatico IPCC e oggi advisor del Barilla Center for Food and Nutrition. ”La produzione di biofuel - ha aggiunto - e’ un’idea vecchia, con un beneficio reale molto inferiore rispetto alle attese. Oggi sappiamo che l’efficienza energetica e’ del 10%, quando va bene arriva al 20%. L’idea quindi di risolvere la questione dell’autosufficienza energetica negli Stati Uniti e in Europa attraverso le agroenergie non esiste più.. Proporre questo modello di sviluppo oggi all’Africa sarebbe come vender loro una automobile scassata”. “Interessante, piuttosto, e’ il riciclo dei rifiuti, un modo intelligente per non sprecare quanto già sprecato”, conclude Valentini.
Francesca Fradelloni
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