Report integrato: quanto costa alla collettività un capannone aziendale?
Consumatori più esigenti, investitori più attenti, amministrazioni pubbliche più sensibili ai temi ambientali. Le figure che chiedono alle imprese più trasparenza sono tante, soprattutto quando si parla di pratiche di CSR, la Corporate Social Responsibility. Iniziative cioè improntate alla sostenibilità sul piano economico, sociale e ambientale. Per le aziende, quindi, non basta fare buone azioni, ma devono anche raccontarle bene, e soprattutto senza bluffare.
Lo strumento per farlo è il bilancio di sostenibilità, a cui si va gradualmente e lentamente affiancando il “report integrato”, un documento in cui bilancio economico-finanziario e rendiconto Csr confluiscono e diventano un tutt’uno. Il report integrato è stato uno dei temi al centro, quest’anno, del Forum Csr di Abi, che si è chiuso oggi a Roma. Nelle aziende a essere messo in campo è tutto un nuovo percorso di accountability. La Csr diventa il motore di una piccola rivoluzione e «la rendicontazione – spiega Marina Migliorato, responsabile Csr e Relazioni con gli stakeholder di Enel – è solo la fase finale di un processo enorme, in cui l’azienda cambia pelle».
In Italia, gruppi come Sorgenia e Enel lo hanno già adottato, altre si accingono a farlo. A livello internazionale se ne parla da più tempo (è stato creato anche un organismo internazionale ad hoc, l’International Integrated Reporting Committee) e in Sud Africa, per esempio, la rendicontazione integrata è diventata obbligatoria per le società quotate alla Borsa di Johannesburg.
«E’ il livello successivo rispetto ai bilanci che già conosciamo, non un loro superamento. In futuro, finanza e sostenibilità saranno integrate e non si potranno più separare», assicura Nelmara Arbex, Deputy Chief Executive della Global Reporting Initiative, associazione che ha indicato una serie di linee guida per questa nuova rendicontazione.
Il Csr Manager Network, in collaborazione con l’Istat, ha elaborato un progetto che è stato presentato oggi al Forum Abi, per rendere effettivamente comparabili, e dunque più trasparenti, i bilanci Csr. Il rischio da evitare è infatti, dicono i responsabili del progetto, che questi documenti, «per la troppa diversità nell’applicazione degli standard e l’eccessiva libertà interpretativa, diventino un puro esercizio autoreferenziale». Saranno creati degli «indici di rilevazione, con validità statistica a livello nazionale, che tengano conto anche di criteri ambientali, sociali e di governance». Tra gli indicatori di tipo ambientale che in futuro potrebbero essere chiesti alle imprese da Istat ci sono per esempio la riduzione dei consumi di energia, gli investimenti per la tutela ambientale, le multe per il mancato rispetto di regolamenti di settore.
Ne abbiamo parlato con Chiara Mio, professore ordinario all’Università Ca’ Foscari di Venezia, delegato del rettore alla sostenibilità, ed esperta di reporting integrato, che ci tiene subito a fare una premessa: «La Csr non può restare un tema da specialisti, ma deve entrare tra le competenze core di tutti i professionisti, dagli architetti ai chimici, altrimenti non cambierà niente».
D) Dott.ssa Mio, come potrà diffondersi tra le imprese lo strumento de report integrato?
R) E’ importante che venga reso obbligatorio. Dovrebbe esserci una norma che obblighi le imprese a dare informazioni chiare e precise su due aspetti chiave: le politiche del lavoro e quelle ambientali.
D) Le aziende sono pronte ad affrontare la sfida?
R) Si tratta prima di tutto di un cambiamento culturale. Negli anni Settanta i bilanci erano di dieci righe, oggi sono tomi. In quest’ottica, il reporting integrato va visto come un’evoluzione della rendicontazione. È in discussione il modello di impresa, perché mentre il bilancio economico-finanziario si occupa del momento attuale, il bilancio di sostenibilità guarda al prima e al dopo. Di un capannone o un centro commerciale, per esempio, non bisogna solo guardare il tempo di recupero dell’investimento, ma anche l’impatto che quella costruzione ha sull’ambiente, visto che durerà per sempre.
D) Anche le Pmi, che in Italia sono la maggioranza, potranno impegnarsi per adottare questo nuovo tipo di rendicontazione?
R) Assolutamente sì, è falso che le Pmi sono escluse dalla Csr. La responsabilità sociale, anzi, è più vicina ai principi del piccolo, che decide sempre pensando anche alle ricadute delle proprie scelte sul territorio. Dal 2008 a oggi, le piccole aziende hanno espulso meno manodopera delle grandi, perché, mentre nei grandi gruppi c’è maggiore spersonalizzazione e distanza tra i vertici e i dipendenti, un piccolo imprenditore ci pensa due volte prima di licenziare un lavoratore di cui si fida e che ha formato. La valorizzazione delle persone quindi, che nelle Pmi è più facile e immediata, è il primo passo verso la Csr. Se le piccole imprese rimarranno fuori dal reporting integrato non avremo una società migliore.
D) Ha sottolineato più volte il rischio di un’autocelebrazione da parte dell’azienda, che può rendicontare solo sugli aspetti positivi, ignorando quelli più critici. Quale può essere la via d’uscita?
R) Le verifiche esterne, fatte da soggetti indipendenti. Servirebbe un organismo esterno che controlli le imprese in relazione alla Csr. Il punto è di nuovo rendere queste verifiche obbligatorie.
D) Quale sarà il peso del fattore ambientale sui reporting integrati e le pratiche di Csr delle aziende?
R) Molto grande. Si tratta di aspetti a cui il consumatore, che non va mai sottostimato, è molto attento. Pensi che in Gran Bretagna la catena di supermercati Sainsbury’s ha iniziato a commercializzare merendine su cui indica la Carbon Footprint. Così, i consumatori inglesi possono scegliere le merendine in base al valore di emissioni di CO2.
Veronica Ulivieri