Langhe: la scelta biologica di Punset
Numero di codice: 001. Sarebbe sufficiente questo semplice dato burocratico per comprendere come la vocazione dell’azienda agricola Punset di Neive, nelle Langhe - primo produttore di vino in Italia ad ottenere la certificazione biologica Ecocert – non sia dell’ultima ora.
Ma sentire il racconto dalla voce di Marina Marcarino, carismatica titolare dell’azienda e amministratore delegato del Consorzio Vintesa, presieduto dal collega altoatesino Hajo Loacker, ha tutto un altro sapore.
L’abbiamo raggiunta sulla cima del “punset“, la collinetta che svetta sulle nebbie autunnali (così chiamata dagli antichi proprietari, i Conti di Castelborgo), proprio nel pieno della vendemmia 2010, un’annata complicata, che ha risentito di condizioni climatiche complesse. Marina è appena tornata da Firenze, dalla presentazione della nuova guida dei Vini de L’Espresso, dove il suo Barbaresco (l’unico biologico in Italia) è stato inserito tra le 215 eccellenze nazionali.
D) Come inizia il cammino di Punset verso il biologico?
R) E’una lunga storia, che coincide con la mia. La proprietà è da anni della mia famiglia, che però fino al 1964 ha fatto vini solo per uso personale, essendo la principale attività quella di costruttori. Io ero predestinata a seguire quel percorso, ma non ne volevo sapere, perciò mi sono iscritta, in segreto, alla Facoltà di Agraria di Torino, e ho chiesto a mio padre di lasciarmi provare per un anno: se avessi solamente perso dei soldi sarei tornata all’azienda di famiglia, altrimenti avrei continuato l’azienda agricola. Ho vinto la scommessa. Era il 1983. Qualche anno dopo abbiamo aperto i primi due campi sperimentali, due ettari a coltivazione biologica, e nel 1987 ho deciso di convertire interamente l’azienda alla produzione biologica certificata, che per me è una scelta di vita.
D)Ma quale è stata la scintilla?
R) All’epoca si iniziava a parlare molto, all’università, di agricoltura biologica, anche se i primi finanziamenti dalla Regione non arrivarono che nel 1993. La cosa però che mi colpì era che tutti, in quegli anni, utilizzavano l’elicottero per irrorare le vigne con gli antiparassitari e questo causava un sacco di problemi e malattie: gente che rimaneva intossicata, chi aveva tumori e chi addirittura moriva. Trovai che fare la scelta di vivere in campagna e andarsi ad avvelenare fosse un’incoerenza assoluta. Io volevo essere libera di muovermi in sicurezza tra le mie vigne, mangiarmi l’uva e stare bene, per cui la scelta fu a tutto tondo. Solo in seguito è divenuto anche un plus commerciale, tanto che fino al 1995, pur essendo certificati bio non lo scrivevamo nemmeno sull’etichetta.
D) Oggi essere certificati ha anche un valore spendibile nel marketing e nella comunicazione, ma allora cosa vi ha spinto ad andare oltre quella che era, principalmente, una scelta di vita? In sostanza, perchè certificarsi quando nessuno te lo richiede?
R) Io credo che sia una questione di coerenza. Se decidi di fare un prodotto con determinate caratteristiche qualitative è giusto che il consumatore abbia degli elementi per verificare che stai dicendo la verità. Francamente, io sono estremamente contraria a questa nuova moda dei vini che si dichiarano ”naturali, buoni, giusti” ecc., senza che vi sia un impegno concreto. Per la serie: non mi certifico, ti dico solamente – a parole - che faccio le cose in un certo modo, e poi se l’annata va come quest’anno, butto dentro l’antibotritico, tanto nessuno mi deve certificare. E’un modo di tenere il piede in due staffe. Io ho scelto di dare ai clienti una garanzia sui nostri prodotti. Tutti gli anni facciamo le analisi multiresiduali e i nostri vini si dimostrano sempre perfetti. Vorrei trovare la stessa certezza anche negli altri prodotti che compro. Un mese fa ci siamo trovati nella necessità di reperire uve dall’esterno, perchè non ne avevamo abbastanza: ho fatto delle selezioni di masse, ma le analisi hanno riscontrato un funghicida nella quantità di 170 mg., quando il limite è di 0,1 milligrammi! Non si trattava però di un singolo produttore, ma di un intermediario commerciale. Probabilmente nel mucchio c’è stata una mela marcia, che ha pensato di non essere individuato perchè sono molti fornitori… L’azienda, non essendo produttrice, riceve solo l’uva per vinificarla e ha una linea bio e una tradizionale. Ma non richiedendo il controllo a monte, sulle masse (che costerebbe di più), rischia di trovarsi poi con un prodotto finale che non può essere certificato e deve essere “declassato” sulla linea tradizionale. Questo apre un altro problema: io non credo nell’azienda mista, non puoi essere bio e non-bio. E’un approccio talmente differente all’agricoltura, che le due cose non si sposano.
D) In cosa si differenzia l’approccio biologico alla vigna?
R) Se fai seriamente agricoltura biologica hai un rapporto con i tuoi vigneti come se fossero tanti figli, li conosci perfettamente, sai che c’è quello dove devi intervenire in un modo, quello dove devi fare diversamente e quello dove non devi praticamente fare nulla. Nella nostra azienda abbiamo delle realtà completamente diverse da un versante all’altro della collina. Se un determinato problema c’è solo in un vigneto, interveniamo su quello e non su tutti. Nella viticoltura tradizionale si segue invece un calendario standardizzato e quello è: non importa se fa bello, fa brutto, se piove o c’è il sole. Ricordo il 2003, annata estremamente particolare. Quando vedemmo che faceva quel gran caldo (il 1°maggio già raccoglievamo le ciliege) ci rendemmo conto che non si potevano seguire le tecniche classiche, ma bisognava cambiare. Abbiamo quindi smesso di tagliar l’erba, non abbiamo diradato, tutto per mantenere un ambiente naturale un po’ più fresco. In questo modo abbiamo protetto il suolo dalle crepe e le radici dal dover uscire dalla terra per cercare acqua. La foglia è il veicolo di scambio con il grappolo: quando, in condizioni climatiche normali, servono 10 foglie per un grappolo, con un caldo eccessivo ne servono 20. Se si tolgono, il grappolo va “sotto stress”. Nella prima settimana di agosto noi avevamo praticamente terminato la vendemmia, mentre gli altri dovevano ancora iniziare. Quell’anno mi guadagnai però la fama di pazza in paese! Eppure i risultati ci hanno dato ragione e nel 2003 abbiamo fatto un’annata fantastica. Il Barbarseco di quell’anno sta ricevendo un sacco di punti a livello internazionale, pur non essendo “cotto” come altri.
D) La differenza quindi “si sente” nel prodotto finale?
R) Eccome, ma senza analisi alla mano è impossibile capirla appieno. Qualcuno crede che il vino, in quanto prodotto della terra, sia tutto “bio”, ma non è così. E’un prodotto che viene trasformato e trattato e, in alcuni casi, si trovano residui significativi (come gli antimuffa) anche a distanza di due anni o più. Questo il consumatore lo avverte nella digeribilità. A tutti noi è capitato di andare a cena, mangiare bene, bere del vino apparentamente buono (al gusto) e poi non digerire, sentirsi pesanti o avere il “cerchio alla testa”. Ma pochi si chiedono il perchè. Il perchè sta in quei residui, che ti porti dietro. E che sono anche un problema nella produzione: io avevo amici produttori che non riuscivano a far partire la fermentazione e quindi continuavano ad aggiungere lieviti, perchè gli antimuffa sono degli antifermentativi e quindi ti inibiscono il processo. Nella viticoltura biologica questo è un problema che non si pone mai.
D) Ci sarà pure qualche produttore “tradizionale” che fa le cose per bene…
R) Certo, tanti. Uno per tutti: Angelo Gaja. La sua fama è meritata. E’ spesso criticato per sola invidia, a mio parere, ma è stato un personaggio fondamentale per l’immagine del vino italiano e del Nord Italia in particolare. E comunque anche lui non è insensibile al tema e sta portando avanti delle sperimentazioni molto interessanti…
D) Gaja è criticato anche per i prezzi…
R) La ringrazio per aver posto la questione. E’ facile, da fuori, dire che un certo vino è caro. Molta gente quando compra un paio di scarpe di marca le paga 500 euro ed è ancora contenta del “saldo”. Borse blasonate – fatte al 90% di plastica – 1.500 euro. Quello che c’è dietro ad una bottiglia di vino, come di olio o di marmellata, pochi sanno valutarlo. Il problema è proprio qui: se vuoi fare produzione di qualità sei costretto ad avere costi di produzione molto alti.
D) Come vivete il periodo di crisi attuale?
R) C’è innanzitutto una crisi “interna” nel mondo del vino. Lo vedo nella realtà piemontese, confrontata con altri esempi internazionali. Qui c’è purtroppo una mentalità molto miope e le critiche invece di essere costruttive sono quasi sempre fini a se stesse. Recentemente ho partecipato a un consiglio di amministrazione del Consorzio di Tutela del Barolo e del Barbaresco, di cui faccio parte, e molti produttori si lamentavano della discesa vertiginosa dei prezzi e del fatto che non ci sia una strategia di mercato abbastanza astuta, per cui ormai il Barolo lo trovi a 9 euro. In effetti guardando, nel nostro archivio, le fatture di 10 anni fa, il Dolcetto lo vendevamo allo stesso prezzo di oggi, ma vogliamo mettere cosa si poteva comprare dieci anni fa con 10.000 lire e cosa si compra oggi con 5 euro? Quello che ho detto, nel mio intervento al Consorzio, è che dobbiamo spiegare alla gente quanto costa fare il vino di qualità! Si parla molto di legalità, ma se vai al supermercato e compri una bottiglia che costa 1,5 euro, o anche 2,5, cosa c’è dietro quei 75 cl di vino? Una bottiglia di vetro, un tappo, un’etichetta, un cartone, il costo di trasporto. Volete che tutto questo non costi almeno 60 centesimi? E che produttore e distributore non ne abbiamo un margine di guadagno, seppur bassissimo? Questo vuol dire che l’uva, la materia prima, usata per fare quella bottiglia (poco più di un chilo), è costata meno di un euro. Se chi raccoglie l’uva viene pagato regolarmente, al costo medio lordo di 10 euro all’ora, come è possibile stare in quei prezzi? E poi ci si stupisce per la mozzarella blu…
D) Dai diplomi che vedo sulla parete qualcuno però, almeno tra gli operatori del settore, è ancora in grado di apprezzare la qualità…
R) I premi fanno sempre piacere, ma per me sono la conseguenza di un buon lavoro, non devono essere il fine. Noi di Punset e del Consorzio Vintesa vogliamo confrontarci, ad “armi pari”, con i produttori tradizionali e non solo nella nicchia del biologico, per dimostrare che i nostri vini possono competere a livello internazionale. Lo dimostrano i punteggi del Wine Spectator e del Wine Enthusiast. Il fatto poi che il nostro Barbaresco ”Campo Quadro” 2007 sia stato premiato dalla guida de L’Espresso è un messaggio importante anche in patria: è la prima volta che un vino piemontese biologico entra in quella classifica.
Andrea Gandiglio