La rivincita degli orti urbani nei dati Inea e Nomisma
2,7 milioni. Tanti sono in Italia, secondo Nomisma, le persone che si dilettano a coltivare un orto, in molti casi in città. Dopo secoli in cui, come spiega Francesca Giaré dell’Istituto Nazionale di Economia Agraria (Inea), il paradigma si è basato sulla «distinzione tra campagna come luogo di produzione agricola e città come luogo di consumo», «la contrapposizione urbano/rurale non descrive più la situazione». Meglio usare parole più appropriate «come contiguità e mescolanza». Di paesaggi ed esperienze di produzione e consumo. È la rivincita degli orti in città e nell’area metropolitana, un ritorno a coltivare la terra che, dopo le piante di pomodoro nel giardino della Casa Bianca, è diventato definitivamente una pratica diffusa e spesso anche uno status symbol.
Secondo i dati dell’Osservatorio Nomisma-Vita in Campagna sull’agricoltura amatoriale, questo nuovo esercito di orticoltori è formato per meno della metà (47%) da pensionati, mentre il restante 53% si compone di figure varie: casalinghe (14%), impiegati (12%), operai (10%), lavoratori autonomi, commercianti e imprenditori (in tutto 8%), insegnanti (4%). L’hobby dell’orto, spiega Massimo Spigola, responsabile dell’area Agricoltura e Industria Alimentare di Nomisma, coinvolge «profili socio-demografici molto distanti. Soggetti che non devono essere confusi con gli agricoltori part-time o con le piccole aziende agricole». Queste figure, non coltivando la terra per professione, spesso sfuggono ai rilevamenti statistici, e con loro «resta molto spesso sottovalutata la produzione di benefici ambientali e territoriali» connessa agli orti. Tra le motivazioni che spingono a sporcarsi le mani di terra, al primo posto ci sono il potere rilassante dell’orto, il piacere di stare all’aria aperta e di sentirsi in armonia con la natura (63%), seguiti dal desiderio di consumare prodotti più sani e genuini (60%) e dalla possibilità di risparmiare (18%).
Rilevante, nello scenario degli orti urbani, la quota di quelli realizzati su terreni pubblici e assegnati dall’amministrazione ai cittadini. Solo gli orti dedicati agli anziani, continua Spigola, «sono circa 18.000, di cui la maggior parte localizzati nelle regioni settentrionali, 14.000 solo in Emilia Romagna». A cui si aggiungono gli orti privati nei giardini di casa, e quelli spontanei che ancora sopravvivono nei frammenti di verde cittadino tra i palazzi o lungo le strade e le ferrovie: a Roma, per esempio, secondo un censimento del Comune, gli orti “abusivi” sarebbero in tutto 2.500, per un totale di 90 ettari.
Ma l’universo degli orti in città non si esaurisce qui. Un’altra tipologia, che continua a generare interesse tra famiglie, associazioni e cooperative, è quella degli orti e giardini condivisi, realizzati cioè da gruppi di cittadini che decidono di recuperare un terreno abbandonato del quartiere e di coltivarlo insieme. Sempre nella capitale, la mappa Zappata Romana, una specie di censimento realizzato dagli architetti Luca D’Eusebio, Andrea Mangoni e Silvia Cioli, ne ha contati più di cento. Due esempi su tutti: «A San Lorenzo, storico quartiere centrale, tre associazioni hanno strappato un fazzoletto di terreno ai privati per costruire un’area di socialità realizzando un parco giochi, un orto, spazi per la convivialità. Alla Garbatella le associazioni, insieme ad alcune famiglie, hanno recuperato un’area vicino alla sede della Regione in attesa di una trasformazione edilizia, per realizzare gli orti urbani comunitari», racconta D’Eusebio. Le storie sono tante: «C’è chi prende spunto dall’orto-giardino per lavorare con i disabili, chi per reinserire lavoratori in mobilità, chi per la produzione alimentare o l’educazione ambientale, chi per fare un presidio contro la speculazione edilizia, chi per creare un’oasi di relax, per decoro o semplicemente per coltivare».
Attività preziose per le città, ma che in Italia, al contrario di quanto avviene in altri Paesi Europei e in Nord America, vengono poco valorizzate. A Parigi, per esempio, continua D’Eusebio, «esiste una convenzione-tipo unica che prevede di dare a chi chiede un’area per farne un “jardin partagé” il terriccio vegetale e l’acqua per l’irrigazione, chiedendo come contropartita solo l’apertura al pubblico dell’area». Ma dove sta il segreto di tanto successo? Come emerge anche dai dati Nomisma, lo scopo non è risparmiare sulla spesa. Piuttosto, «sono spazi che rispondono all’esigenza di fare comunità. In definitiva, si piantano zucchine, ma si raccolgono relazioni sociali e un nuovo modo di pensare il mondo».
Veronica Ulivieri