L’ecologia in tempo di guerra
Giovedì 22 ottobre si è tenuta alla Farnesina, in presenza del Ministro Frattini, la presentazione del documentario “La cooperazione italiana in Afghanistan”, realizzato dalla giornalista Mariangela Pira su incarico del Servizio Stampa del Ministero degli Esteri. Un’occasione per fare il punto sulle differenti tipologie di intervento civile che, con un investimento di 356 milioni di euro, l’Italia sta sviluppando nel paese, nell’ambito della cosiddetta “strategia di transizione”.
Come precisato dal Ministro Frattini, si tratta di ricalibrare “la strategia finora prevalentemente militare” per “mettere la popolazione civile al centro della missione internazionale”. Una direzione illustrata nel volume “Italia in Afghanistan”, in cui si sottolinea come l’impegno italiano si stia sempre più configurando come “comprehensive”, ovvero come strategia di institution builiding ad ampio raggio, basata su 3 pilastri – sicurezza, legalità e ricostruzione sociale ed economica (in cui rientrano la tutela delle risorse naturali e lo sviluppo agricolo e rurale) – e 5 temi trasversali, tra cui l’ambiente.
L’attenzione verso gli aspetti in senso lato ambientali sottende una questione di estrema importanza, troppo spesso ignorata poiché considerata “secondaria” rispetto ai problemi prioritari che si riscontrano nelle zone di guerra.
La tutela dell’ambiente per il futuro post-bellico di queste aree risulta infatti fondamentale, alla luce di quanto insegnato da esperienze devastanti come la deforestazione in Vietnam, la distruzione di pozzi di petrolio in Kuwait e in Iraq e l’inquinamento da uranio impoverito nell’ex Jugoslavia – tutti problemi che, a distanza di anni, continuano a produrre effetti deleteri sulla vita della popolazione locale.
Come riportato nell’opuscolo “UNEP in Afghanistan”, pubblicato a gennaio di quest’anno dallo United Nations Environment Programme, in Afghanistan la considerazione delle questioni ambientali assume un primo indirizzo nel 2002, quando il Gran Consiglio Afghano (Loya Jirga), a seguito della firma dell’Accordo di Bonn da parte del governo di transizione guidato da Hamid Karzai, stabilisce che la gestione della crisi ambientale (dopo 30 anni di devastazioni belliche) debba diventare “una delle priorità del nuovo governo”.
Le Nazioni Unite vengono coinvolte a supporto di questo difficile compito e nasce l’UNEP’s Post-Conflict and Disaster Management Branch che, in stretta collaborazione con il Governo di Transizione Afghano, si impegna a valutare l’impatto ambientale della guerra sulla vita e la salute della popolazione, pubblicando nel 2003 The Afghanistan Post-Conflict Environmental Assessment Report, tuttora punto di riferimento imprescindibile sull’argomento.
La guerra, rileva il rapporto, ha gravato pesantemente sull’ambiente afghano, sia direttamente, a causa della pressione esercitata dalle attività belliche, sia indirettamente, attraverso le migrazioni interne e la distruzione del sistema di gestione delle risorse, dal semplice villaggio all’amministrazione statale – che oggi si trova ad affrontare uno scenario di complesse problematiche ambientali, recentemente affidate al coordinamento dell’ex ambasciatore Mustafa Zaher (nipote del defunto re d’Afghanistan Mohammed Zaher Shah), a capo del Dipartimento per l’Ambiente.
Uno dei problemi più gravi è il massiccio disboscamento delle foreste, in particolare nelle province del Nuristan, Kunar, Khost, Paktika e Paktia, dovuto in gran parte allo spostamento in massa dei profughi e alla loro necessità di legna da ardere, ma anche al contrabbando di legname con il Pakistan. Vaste zone sono così diventate soggette all’erosione del suolo e alle inondazioni. Anche le foreste del Nord-Ovest, dove si raccoglievano i pistacchi, sono in gran parte scomparse, con conseguenze economiche pesanti sul futuro della ricostruzione.
Per fronteggiare queste criticità, da tempo, a fianco dei governi, si sono mobilitate anche le ONG internazionali, concentrandosi su aspetti apparentemente marginali, ma in grado di contribuire significativamente alla preservazione delle risorse naturali: come il “solar cooking”, un semplice sistema di cottura a specchi che, sfruttando i quasi 300 giorni di sole all’anno del paese, consente alla popolazione di ridurre il disboscamento di legna da ardere evitando oltretutto che i bambini, come spesso accade, siano confinati a questa attività e destinati all’ignoranza, piuttosto che allo studio.
Le mine antiuomo continuano ad essere un’altra questione drammatica, sia nelle zone rurali che in quelle urbane, dove si aggiunge l’aggravarsi dell’inquinamento dovuto all’incapacità di infrastrutture obsolete (fognature, fornitura di acqua potabile ecc.) di reggere l’aumento della popolazione cittadina.
Il governo afghano sta cercando di far fronte ad una situazione che rischia di degenerare ulteriormente e ha firmato in questi anni le Convenzioni ONU sulla Diversità Biologica e Contro la Desertificazione, ma la concretizzazione di iniziative che possano dare risultati significativi sembra ancora lontana.
Tra le linee di intervento promosse dalla cooperazione italiana, ha ricordato il Ministro Frattini in conferenza stampa, assume un piano decisivo il supporto allo sviluppo e alla ricostruzione agricola, sul quale l’Italia può fornire un importante contributo, ma anche iniziative più mirate come la conservazione dell’ambiente di montagna, che caratterizza gran parte del territorio afghano.
A questo proposito, già alcuni anni fa la rivista Silvae del Corpo Forestale dello Stato si chiedeva, in un articolo dal titolo “Le trombe di Gerico. Le conseguenze ambientali delle guerre moderne”, se non fosse auspicabile, nell’ottica della riduzione dei danni ambientali in zone di guerra e per poter effettuare le necessarie valutazioni ambientali post-conflitto, un coinvolgimento dei Forestali nelle operazioni di peace-keeping e peace-enforcing. Uno stimolo che, a nostro parere, rimane tuttora degno di seria considerazione.
Un aiuto può venire infine dalle azioni di microcredito per stimolare iniziative private nel campo dell’agricoltura e del riciclo, sul modello di quanto sviluppato dalla Fondazione scozzese Turquoise Mountains che, ricorda Mariangela Pira, “non si limita ad offrire sostegno finanziario ad una comunità di persone, ma piuttosto aspira a creare una sorta di circolo virtuoso all’interno della comunità stessa, con l’obiettivo di raggiungere forme di sviluppo sostenibile”.
Andrea Gandiglio