L’accordo sul clima USA-Cina visto “da dietro”: impegni senza vincolo né sanzioni. Ma il gioco ora cambia
L’accordo siglato l’11 novembre tra Stati Uniti e Cina per la riduzione delle emissioni di gas serra segna indubbiamente un momento di svolta nel lento e farraginoso iter dei negoziati internazionali sul clima. I due maggiori produttori di gas climalteranti del pianeta, dopo anni di ostruzionismo verso qualunque accordo internazionale sul riscaldamento globale, hanno finalmente sottoscritto un accordo bilaterale che definisce obiettivi “concreti” di riduzione delle rispettive emissioni. O forse no?
Nel testo siglato da Obama e Xi Jinping si legge che gli Stati Uniti “intendono” ridurre le proprie emissioni del 26%-28% rispetto ai livelli del 2005 entro il 2025 e “fare il possibile per” ridurle del 28%; la Cina, dal canto suo, “intende” raggiungere il proprio picco di emissioni di CO2 “intorno al” 2030 e “fare il possibile per” raggiungerlo prima.
Si tratta quindi di comuni e condivise intenzioni verso degli obiettivi da raggiungere e di un impegno (non vincolante), da parte di entrambi, a fare il possibile per raggiungerli prima del previsto e con il massimo dei risultati. Bene. Le buone intenzioni e l’unità d’intenti sono certamente condizioni necessarie al buon funzionamento e all’efficacia di un accordo internazionale, ma non sufficienti.
L’accordo tra Stati Uniti e Cina è a base meramente volontaria. Non contiene quindi alcun impegno o obiettivo legalmente vincolante, non prevede organismi di controllo sul rispetto degli obiettivi prefissati né, tanto meno, sanzioni in caso di mancato raggiungimento degli stessi.
Entrando poi nel merito degli impegni presi, l’obiettivo di riduzione degli Stati Uniti era già noto a giugno, mentre la Cina non si è impegnata a limitare progressivamente le proprie emissioni di CO2, bensì a fare il possibile per raggiungere, intorno al 2030, il livello massimo delle stesse, per poi, forse, cominciare a ridurle.
A poche settimane dal COP20 di Lima e in vista di nuovi difficili negoziati per un nuovo impegno globale post-Kyoto verso Parigi 2015, viene quindi da chiedersi se questo accordo bilaterale possa davvero essere definito “storico” e per quali motivi.
Difficile pensare che possa rivelarsi cruciale nell’urgente lotta al riscaldamento globale. Non lo è stato, dal 2005 ad oggi, il Protocollo di Kyoto, pur con obiettivi legalmente vincolanti per i paesi industrializzati, un comitato di conformità incaricato di vigilare sul rispetto degli impegni presi, meccanismi flessibili capaci di fare delle emissioni abbattute una merce di scambio e una fonte di possibile guadagno, responsabilità e oneri comuni ma differenziati in base al livello di crescita e sviluppo dei singoli Paesi. Gli obiettivi si sono rivelati insufficienti. Se oggi l’Unione Europea proclama un obiettivo di riduzione delle emissioni di gas serra del 40% (rispetto ai valori del 1990) entro il 2030, l’India prevede di incrementare le proprie del 60% tra il 2020 e il 2040 e non mostra alcuna intenzione di volersi sedere al tavolo delle trattative. Senza il coinvolgimento e l’impegno dei cosiddetti Paesi in Via di Sviluppo e nuovi obiettivi, più stringenti, per tutti, il rischio di non riuscire a limitare l’innalzamento delle temperature a soli 2°C è pressoché inevitabile. Perché dovrebbe riuscirci un accordo bilaterale non vincolante, se pur tra grandi potenze inquinanti?
L’accordo è però certamente “storico” per i tempi e i modi con cui è stato raggiunto ed è per questo che Robert Falkner, esperto di negoziati internazionali sul clima alla London School of Economics, lo definisce un “game changer”. Stati Uniti e Cina hanno per la prima volta una visione comune sul clima. Ci sono arrivati in solo 50 giorni di trattative dopo diversi anni di totale assenza di confronto e dialogo in seno ai negoziati della Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCC). L’hanno fatto con gran riserbo e nell’interesse esclusivo di entrambi senza dover contrattare la propria posizione con gli altri Paesi industrializzati dell’Annex I, né dover condividere e concordare la propria linea d’azione con le altre potenze attualmente escluse dai vincoli di Kyoto, tra cui Sud Africa, India e Brasile. L’hanno fatto a seguito di concrete misure di riduzione delle emissioni nazionali adottate quasi in contemporanea e, soprattutto, l’hanno fatto senza prendersi impegni vincolanti, ma legando gli obiettivi a investimenti comuni di ricerca e sviluppo, accordi commerciali e programmi di crescita dei rispettivi settori di green economy.
Ebbene, se fino a poche settimane Stati Uniti e Cina potevano rappresentare uno degli alibi per il fallimento di ogni tentativo di raggiungere un efficace accordo globale sul clima, oggi rappresentano uno scomodo ma vero interlocutore in sede di negoziato e questo sì, è un fatto storico.
La cruciale COP di Parigi, a dicembre 2015, vedrà quindi a confronto, da una parte, gli storici fautori di Kyoto, fiaccati da anni di sterili trattative e frustrati da miseri risultati, dall’altra Stati Uniti e Cina, forti del consueto peso politico ed economico e di una nuova posizione comune sul cambiamento climatico e sulla tipologia di impegni da assumersi per farvi fronte.
A detta di Falkner questo nuovo scenario potrebbe definitivamente sbloccare i negoziati internazionali. Resta da vedere come e con quali conseguenze per l’ambiente e il clima del pianeta.
Emiliano Giovine – Avvocato, esperto in diritto internazionale, dottorando presso l’Università di Utrecht, già consulente all’UNEP di Ginevra, Legal Officer presso JRC della Commissione Europea.