La storia infinita delle bonifiche nei SIN. Dossier choc di Legambiente
“Oggi si propone con un decreto di mandare, a costi altissimi, l’esercito nella Terra dei Fuochi, la vasta area campana contaminata dall’incenerimento dei rifiuti: in realtà quello di cui c’è bisogno non è l’esercito ma l’esercizio, una pratica fondamentale, la partecipazione democratica”.
A parlare, durante la presentazione alla Camera dei Deputati del dossier choc di Legambiente, “Bonifiche dei siti inquinati: chimera o realtà?”, è Michele Bonomo, presidente campano di Legambiente. “L’esercito non è servito a nulla neppure nelle strade di Napoli”, conclude,”quando avrebbe dovuto scongiurare il fenomeno del contrabbando e dell’abbandono dei rifiuti”. Invece bisogna ricostruire un tessuto democratico e mettere in moto – prima del ciclo integrato dei rifiuti – il ciclo integrato delle responsabilità, per riaccendere la passione civile”.
Bonomo di inquinamento è purtroppo esperto: la Terra dei Fuochi – definizione divenuta tristemente famosa e data per la prima volta, undici anni fa, in un capitolo del Rapporto Ecomafia 2003 – rientra all’interno del sito inquinato più vasto, denominato Litorale Domitio Flegreo e Agro Aversano. Un’area fortemente contaminata dall’inquinamento causato dai rifiuti prodotti dalle industrie di diverse parti d’Italia, a partire dal nord del Paese, e smaltiti illegalmente lì da almeno 30 anni nelle discariche locali, più o meno abusive, e durante l’ultimo decennio, con i roghi all’aria aperta ad opera dell’ecomafia locale, a partire dal clan camorristico dei Casalesi.
Una vertenza, si legge nel dossier scaricabile in versione integrale qui, entrata finalmente anche nell’agenda della politica nazionale, dopo tanti anni di colpevole inazione, oggetto di un decreto legge ad hoc approvato in un recente Consiglio dei ministri e ora al vaglio delle aule parlamentari per la sua conversione in legge.
La Terra dei Fuochi è stata uno dei primi 15 SIN – Siti di interesse nazionale - inseriti nel programma nazionale di bonifica nel 1998 ed è diventato lo scorso anno in modo del tutto incomprensibile un SIR, sito di interesse regionale, tramite un decreto del Ministero dell’Ambiente dell’11 gennaio 2013 che lo ha declassificato con il benestare della Regione Campania. Contro questo decreto Legambiente ha presentato ricorso al Tar del Lazio proprio per l’esclusione dal Programma nazionale di bonifica di 4 siti da bonificare: Litorale Domizio-Flegreo e Agro Aversano, Pitelli a La Spezia, il bacino del fiume Sacco, le discariche della provincia di Frosinone.
In Italia – da Taranto a Crotone, da Gela e Priolo a Marghera, passando per la Campania – le superfici, terrestri e marine, individuate negli ultimi 15 anni come siti contaminati e inserite tra i SIN dal Programma nazionale di bonifica curato dal Ministero dell’ambiente, arrivano a circa 180mila ettari, ma con la riduzione del numero dei SIN da 57 a 39 grazie al decreto dell’11 gennaio 2013 siamo “scesi” ad una superficie di 100mila ettari. Purtroppo però, la storia del risanamento di questi territori è ferma a dieci anni fa.
Solo in 11 SIN su 39 è stato presentato il 100% dei piani di caratterizzazione previsti, primo step del processo di risanamento che definisce il tipo e la diffusione dell’inquinamento presente e che porta alla successiva progettazione degli interventi (tra questi: Manfredonia, Acna di Cengio, il sito produttivo di Pieve Vergonte, Sesto San Giovanni, la Stoppani di Cogoleto e la Fibronit di Bari). Nella maggior parte dei SIN i ritardi nella presentazione dei piani di caratterizzazione sono generalizzati: le situazioni più gravi riguardano Bagnoli dove siamo solo al 29% del totale delle aree a terra perimetrate, a Priolo siamo al40%, a Taranto al 43% e a Napoli Est al 49% (questi siti sono entrati nel programma nazionale di bonifica nel lontano 1998), mentre a Crotone si è al 42% (SIN dal 2001). Anche sui progetti di bonifica presentati e approvati emerge un forte ritardo: solo in 3 SIN su 39 (gli stabilimenti di Cengio e Pieve Vergonte, il sito di Fidenza) è stato approvato il 100% dei progetti di bonifica previsti. In totale sono solo 254 i progetti di bonifica di suoli o falde con decreto di approvazione (e quindi tali da permettere l’avvio dei cantieri): 46 riguardano il sito di Porto Marghera, 20 quello di Priolo, 17 Massa e Carrara, 14 Sesto San Giovanni, 13 Pitelli e Napoli Est, 11 Livorno e 10 Gela.
Il giro d’affari complessivo del risanamento ambientale in Italia si aggirerebbe intorno alla cifra astronomica di 30 miliardi di euro: dal 2001 al 2012 sono messi in campo 3,6 miliardi di euro di investimenti, tra soldi pubblici messi a disposizione (1,9 miliardi di euro, pari al 52,5% del totale) e progetti approvati di iniziativa privata (1,7 miliardi di euro, pari al 47,5% del totale).
Il problema del reperimento delle risorse ancora necessarie per le bonifiche delle aree pubbliche è ovviamente rilevante, anche se qualche strumento a disposizione dello Stato per recuperarle c’è. Il principale è il risarcimento del danno ambientale, nonostante i limiti della normativa italiana su questo fronte. Sono in corso anche alcune transazioni tra ministero e responsabile dell’inquinamento: in base ai dati del Ministero dell’Ambiente aggiornati al marzo 2012 le transazioni concluse con alcuni responsabili della contaminazione nei SIN di Porto Marghera, Brindisi, Napoli Est e Priolo avevano raggiunto la cifra di 696 milioni di euro (di questi 566 sono riferiti solo all’area industriale veneziana, su cui però l’Avvocatura Generale dello Stato durante il processo alla chimica avviato alla fine degli anni ’90 aveva stimato un danno ambientale pari a 70mila miliardi di vecchie lire, pari a circa 35 miliardi di euro).
Sui motivi alla base del ritardo del Programma Nazionale di Bonifica bisogna partire dal ruolo di coordinamento e gestione del Ministero dell’Ambiente, iniziato nel dicembre 1998 con la legge che istituì i primi 15 SIN da bonificare. In questi 15 anni è emerso con grande evidenza un ruolo inadeguato da parte del Ministero nel gestire una partita così complessa e articolata. “Abbiamo assistito”, si legge nel dossier, “ad una lunghissima serie di conferenze dei servizi finalizzate alle attività di risanamento dei vecchi 57 SIN (a marzo 2013 secondo i dati del Ministero si erano tenute 1.507 conferenze dei servizi, di cui 804 istruttorie e 703 decisorie, in cui sono stati valutati 22.880 documenti presentati dai soggetti coinvolti nelle opere di bonifica) che non ha raggiunto l’obiettivo del risanamento.
Un’attività che ha portato spesso a realizzare giganteschi programmi di caratterizzazione, teorizzati dalle gestioni ministeriali del passato a partire da quella dell’ex direttore generale del Ministero Gianfranco Mascazzini, con quantitativi importanti di campionamenti e analisi di acque di falda, terreni, rifiuti e sedimenti, che hanno sicuramente fatto le fortune di alcuni operatori del settore ma che hanno poi ingessato l’iter con una mole di informazioni, a volte ingestibile, che non si è concretizzata in progettazione degli interventi ed esecuzioni dei lavori.
In questo scenario di grandi ritardi nelle attività di bonifica dei siti contaminati, un ruolo non marginale lo hanno avuto anche una parte dei soggetti responsabili dell’inquinamento. Chi, si legge, “a fronte di un investimento importante da mettere in campo per risanare suoli e falde dai rifiuti prodotti dalle proprie lavorazioni, approfitta della dilatazione dei tempi – e a volte fa anche ricorso contro i decreti – per spalmare la spesa da affrontare su un orizzonte temporale biblico”.
Esempio emblematico di questo modo di procedere (non solo sulle bonifiche ma più in generale) è la famiglia Riva, proprietaria dell’Ilva di Taranto, dove solo dopo il sequestro dell’impianto operato dalla magistratura nell’estate del 2012 e il commissariamento aziendale da parte del governo del 2013 si è attivato un percorso di ammodernamento degli impianti (anche se ancora molto lento a dir la verità). O è il caso delle aziende chimiche che ancora oggi in Italia hanno impianti cloro-soda che utilizzano l’obsoleta e inquinante tecnologia con le celle al mercurio, come nel caso dei siti produttivi ex Enichem, poi Tessenderlo e oggi HydroChem Italia di Pieve Vergonte.
Dal dossier emerge chiaramente anche il rischio di illegalità e di infiltrazione ecomafiosa nel settore e non solo nelle regioni del Sud Italia. Le cronache giudiziarie degli ultimi anni – che fanno emergere sempre una pericolosa commistione tra pubblico e privato, tra controllori e controllati – lo confermano. Le bonifiche stanno alimentando anche il network nazionale dei traffici illegali di rifiuti gestito da ecomafie e criminalità ambientale. In base alle elaborazione di Legambiente delle informazioni contenute nel data base associativo sulle indagini contro le organizzazioni attive nel traffico illegale di rifiuti, dal 2002 ad oggi sono state 19 le indagini che hanno fatto emergere smaltimenti illegali di rifiuti derivanti dalla bonifica di siti inquinati (pari all’8,5% del totale delle indagini concluse contro i trafficanti di rifiuti), sono state emesse 150 ordinanze di custodia cautelare, sono state denunciate 550 persone e coinvolte 105 aziende.
Intanto di inquinamento si muore. I danni alla salute, oltre all’ambiente, delle popolazioni residenti intorno alle aree inquinate, sono documentati nel capitolo del dossier, curato da Roberta Pirastu dell’Università La Sapienza di Roma e Pietro Comba dell’Istituto Superiore di Sanità.
Grazie al progetto Sentieri (Studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento), promosso dal Ministero della Salute e coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità, conclusosi nel 2011 e in corso di aggiornamento, si è arrivati a descrivere il profilo sanitario delle popolazioni residenti in 44 SIN. I risultati sulle conseguenze epidemiologiche dell’esposizione all’inquinamento prodotto da fonti industriali ben individuabili emergono con forza. Si va dall’eccesso di tumori della pleura nei SIN che hanno a che fare esclusivamente con l’amianto (Balangero, Casale Monferrato, Broni, Bari-Fibronit e Biancavilla, con il suo problema specifico di fibre asbestiformi) o dove l’amianto è uno degli inquinanti presenti (Pitelli, Massa Carrara, Priolo e Litorale Vesuviano) agli incrementi di mortalità per tumore o più in generale per malattie legate all’apparato respiratorio a causa delle emissioni in atmosfera degli impianti petroliferi, petrolchimici, siderurgici e metallurgici (Gela, Porto Torres, Taranto e nel Sulcis in Sardegna). Sono stati evidenziati eccessi di mortalità per malformazioni congenite (Massa Carrara, Falconara, Milazzo e Porto Torres) e patologie del sistema urinario per l’esposizione a metalli pesanti e composti alogenati (Piombino, Massa Cararra, Orbetello, nel basso bacino del fiume Chienti e nel Sulcis). Emergono anche gli eccessi di malattie neurologiche da esposizione a metalli pesanti, come piombo e mercurio, e solventi organo-alogenati (Trento nord, Grado e Marano e nel basso bacino del fiume Chienti), ma anche dei linfomi non Hodgkin da contaminazione da PCB (Brescia). E tutto questo causa un dramma sociale strisciante che non sempre riesce ad emergere.
“Se non decollerà il settore delle bonifiche, non riusciremo a riconvertire il sistema produttivo italiano alla green economy – ha sottolineato il responsabile scientifico di Legambiente Giorgio Zampetti.
Per questa ragione, Legambiente ha avanzato dieci proposte che hanno lo scopo di avviare concretamente i processi di risanamento ambientale del Paese:
1. Garantire maggiore trasparenza sul Programma nazionale di bonifica: il Ministero dell’Ambiente dovrebbe attivare un sito internet dedicato al Programma nazionale di bonifica prendendo spunto ad esempio da quello realizzato negli Stati Uniti d’America dall’Epa per i siti inquinati inseriti nel programma Superfund; 2. stabilizzare la normativa italiana e approvare una direttiva europea sul suolo; 3. rendere più conveniente l’applicazione delle tecnologie di bonifica in situ; 4. istituire un fondo nazionale per le bonifiche dei siti orfani; 5. Sostenere l’epidemiologia ambientale per praticare una reale prevenzione; 6. Fermare i commissariamenti; 7. Potenziare il sistema dei controlli ambientali; 8. Introdurre i delitti ambientali nel codice penale; 9. Applicare il principio chi inquina paga anche all’interno del mondo industriale; 10. Ridimensionare il ruolo della Sogesid (una SpA pubblica che dal 2002 fa assistenza tecnica al Ministero dell’Ambiente).
Nonostante i gravi ritardi del risanamento, però alcuni casi di riconversione cominciano a concretizzarsi: basti pensare alla bioraffineria di Crescentino (VC) già attiva o a quella in costruzione a Porto Torres (SS). Ma non basta. “Il governo e il Parlamento”, ha ricordato Zampetti, “devono accelerare il processo di risanamento ambientale, risolvendo anche il problema delle risorse, ma anche il mondo industriale deve fare la sua parte mettendo in campo azioni concrete, bonificando in tempi non geologici i suoli e le falde inquinate, con adeguate risorse economiche ed umane, per risanare le gravi distorsioni di uno sviluppo corsaro e distruttivo, che ha reso inutilizzabili intere aree del Paese, creando piuttosto quell’auspicabile equilibrio tra ambiente, salute e lavoro che può aprire un prospettiva concreta di lavoro e di sviluppo”.
Ilaria Donatio