In nome del popolo sovrano. Il travagliato iter dei referendum di giugno
Il tempo è ormai scaduto, questa è la settimana decisiva: nei prossimi giorni si saprà se, il 12 e 13 giugno prossimi, tra i quesiti referendari, ci sarà anche quello relativo alla produzione di energia da fonte elettronucleare.
Dire che la situazione è “confusa”, pare un pallido eufemismo. Restiamo, per quanto complessi, ai fatti, cercando di ricostruire la vicenda.
Nella conversione in legge del Decreto 31 marzo 2011, n. 34 “Disposizioni urgenti in favore della cultura, in materia di incroci tra settori della stampa e della televisione, di razionalizzazione dello spettro radioelettrico, di moratoria nucleare, di partecipazioni della Cassa depositi e prestiti, nonché per gli enti del Servizio sanitario nazionale della regione Abruzzo” - che per omogeneità e organicità (e forse pietà del cittadino) è stato ribattezzato “decreto omnibus” – il passaggio finale in Senato, ha visto la maggioranza approvare un emendamento che sostituisce la moratoria decisa dopo il disastro di Fukushima (contenuta nell’articolo 5), con un’abrogazione di norme che superi, in sostanza, il quesito referendario.
Perché questo “superamento” possa prodursi è necessario però che le nuove norme, rispecchiando il testo del quesito referendario, cancellino l’attuale disciplina sul nucleare – per la quale tanto tempo ed energie (anche propagandistiche) si sono spese fino ad oggi. Il tempo ora stringe e i termini per la conversione del decreto scadono lunedì 30 maggio, data ultima entro la quale dev’essere approvato il testo della legge di conversione.
A questo punto, ai fini del superamento del quesito referendario, sarà necessario che il testo venga pubblicato in Gazzetta Ufficiale in tempo utile affinché l’Ufficio Centrale per il referendum, presso la Corte di Cassazione, possa deliberare in merito. I giudici, dopo una non facile (e certosina) analisi del testo, dovranno decidere se le nuove norme siano o meno idonee a superare il quesito, in tutto o in parte. In quest’ultima eventualità, potrebbe però non esserci il tempo di stampare nuove schede con un’interrogazione più ristretta!
Ancora più complicata è la questione che riguarda le implicazioni della sentenza della Corte Costituzionale n. 68 del lontano 1978 che, nei giorni, è stata ripetutamente chiamata in causa da costituzionalisti ed esponenti referendari. La sentenza reputa infatti necessaria la modifica sia dei principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente sia dei contenuti normativi essenziali dei singoli precetti; e addirittura, in mancanza di (reale) cambiamento, ha sancito che il referendum si effettui sulle nuove disposizioni legislative. Tuttavia, è plausibile attendersi che il controllo di rispondenza dei giudici della Cassazione non potrà che essere di tipo formale e, quindi, incentrato sul confronto letterale tra il contenuto della nuove norme e la formulazione del quesito referendario. A nostro avviso, quindi, la previsione più facile è che il precedente della sentenza 68/1978 possa aprire la strada a un eventuale ricorso dei referendari.
Sul piano del confronto politico, poi, oltre al prevedibile ostruzionismo delle forze di opposizione (alcune delle quali promotrici del referendum), non erano altrettanto previste, dalla maggioranza, le difficoltà conseguite ai risultati di voto nelle elezioni amministrative. Difficoltà che, indubbiamente, distolgono attenzioni e sottraggono uomini alla causa anti-referndaria: in buona sostanza, non è affatto scontato che ci siano i numeri per una prova di forza in aula e, quindi, diventa rischioso lo stesso ricorso alla fiducia, contando i pochissimi giorni utili per attuarlo: forse solo mercoledì e giovedì.
Non va infine dimenticato che ogni legge dello stato, per essere pubblicata in Gazzetta Ufficiale, deve essere firmata dal Presidente della Repubblica. Il Capo dello Stato, è bene ricordarlo, può legittimamente avvalersi di tutto il tempo necessario per esaminare un provvedimento così complesso. Solo il 21 febbraio scorso, per altro, il Presidente ha scritto ai presidenti di Senato, Camera e al Governo per condannare formalmente la degenerazione subita dall’ultimo decreto legge “mille proroghe”, che in sede di conversione è stato gonfiato e trasformato neanche fosse una legge finanziaria.
In questo caso siamo già di fronte ad un testo eterogeneo ab origine che, tra l’altro, nasce come iniziativa a favore della cultura, tanto da essere stato esaminato dalle commissioni Bilancio e Istruzione – sulle quali è lecito nutrire dei dubbi circa la competenza in in materia energetica.
Perché, in sostanza, la maggioranza si sia cacciata in un tal ginepraio, non è del tutto chiaro. Si è ritenuto forse prioritario che il popolo sovrano non si esprimesse su «scelte così importanti per il nostro futuro» che, per l’appunto, «non possono essere fatte sulla base di ondate emotive o di strumentalizzazioni politiche», per usare le parole del ministro Paolo Romani nella presentazione dell’emendamento di trasformazione della moratoria.
Questa volta però pare che non si sono valutati appieno tempi e modi. Dal 12 maggio, intanto, su sollecitazione del Presidente Napolitano e dell’Autorità Garante per le Comunicazioni, viene trasmessa la pubblicità istituzionale sui quattro quesiti referendari (e sono stati pure affissi i manifesti con i testi completi). Non sembra dunque particolarmente rispettoso nei confronti dell’intero corpo elettorale (anche di chi, legittimamente, si asterrà) sottrarre “in zona Cesarini” un quesito.
Sul piano strettamente politico, per altro, le ricadute di un’abrogazione del nucleare ben difficilmente avrebbero impatti particolarmente significativi. Dopo l’incidente giapponese, infatti, sono già numerosi i ministri che hanno fatto “un passo indietro” e, considerato il contesto mutato e la moratoria stessa, attaccare una scelta ormai vecchia – l’ormai semi-disconosciuta strategia nucleare – è un’arma spuntata.
Se, infine, ci si ricorda che il quorum non si raggiunge in un referendum dal lontano 11 giugno 1995, gli interrogativi sulla scelta del governo non fanno che aumentare. Chissà però che il popolo, oltre a sospettare, vada, questa volta, anche a votare…
Antonio Sileo e Antonio Di Martino*
* Ricercatori IEFE Bocconi