Il ritiro delle trivelle. Fallimentari dal punto di vista economico e ambientale
È un fatto italiano ma non solo e sta passando alla cronaca di questi giorni: no alle trivellazioni in mare.
Come sostengono da tempo le principali associazioni ambientaliste internazionali e come impugnato dalle Regioni Abruzzo, Campania, Lombardia, Marche, Puglia e Veneto (che hanno presentato ricorso alla Corte costituzionale contro la parte dello Sblocca Italia che riguarda le trivellazioni in Adriatico perché ritenuta in contrasto con la Costituzione), queste attività di ricerca e estrazione producono “irrilevanti benefici economici e sociali ed elevati pericoli ambientali per il territorio” (queste le parole del Presidente della Regione Veneto di pochi giorni fa). Il ricorso riguarda le misure urgenti per l’approvvigionamento e il trasporto del gas naturale e quelle per la valorizzazione delle risorse energetiche nazionali che rischiano di mettere a rischio “aree di pregio naturalistico e paesaggistico e fiorenti attività economiche legate al turismo e alla pesca, con lo scopo di estrarre idrocarburi di dubbia qualità che agli attuali tassi di consumo, valutate le riserve certe a terra e a mare censite dal Ministero dello Sviluppo Economico – continua Zaia- potrebbero coprire il fabbisogno nazionale per un periodo non superiore a un anno”.
Risorse neanche accertate o che comunque non giustificherebbero il danno ambientale causato. ”Per quel che riguarda l’Adriatico – dice il governatore della Regione Marche - stiamo parlando di un mare semichiuso e con un lento ricambio delle acque; un’area dall’ecosistema molto sensibile e che sta puntando con grande determinazione sulla crescita turistica legata all’ambiente e al paesaggio. Impensabile che su tematiche come la produzione, il trasporto e la distribuzione dell’energia il parere e l’intesa delle Regioni (e delle popolazioni locali, nda) non vengano tenuti nella debita considerazione”.
Le misure sono contestate e contestabili soprattutto a fronte di quanto sta succedendo poco più in là, in Groenlandia e nelle Isole Canarie, dove importanti compagnie petrolifere – la Maersk Oil, la norvegese Statoil, la francese GDF Suez e la Dong, controllata dallo stato danese nell’Artico e la Repsol, multinazionale energetica spagnola– stanno abbandonando le trivellazioni e sospendendo le attività, come era successo già alla Scottish Cairn Energy lo scorso anno e alla statunitense Chevron che ha deciso a dicembre scorso di sospendere a tempo indeterminato i piani di trivellazione petrolifera nel mare di Beaufort, nell’Artico canadese, per “incertezza economica nell’industria”.
Sembra proprio che questi cantieri non valgano più la pena e la strategia fossile si confermi fallimentare anche dal punto di vista economico, oltre che ambientale.
La Repsol fermando le sue attività nei mari delle Isole Canarie (avrebbe perforato un fondale posto a 882 metri di profondità; e da lì avrebbe esplorato formazioni geologiche per ulteriori 2.211 metri) sta facendo saltare un progetto da 7,5 miliardi di dollari, con il quale l’azienda – sostenuta dal governo spagnolo – contava di poter arrivare a una produzione di circa centomila barili di petrolio al giorno. Ma la fase di studio iniziale ha verificato una presenza di giacimenti di gas insufficienti a far partire l’attività di estrazione e produzione. Su un comunicato della compagnia spagnola, divulgato anche da Greenpeace – che da subito ha duramente contestato i piani della Repsol con manifestazioni, azioni dirette e non violente – si legge che “i campioni ottenuti nelle fasi di ricerca confermano l’esistenza di gas, tuttavia senza i necessari requisiti di volume e di qualità che giustificherebbero una futura estrazione”.
Ma i danni di queste esplorazioni? “Le fasi di ricerca di idrocarburi – afferma proprio Greenpeace, che chiede al governo spagnolo e all’azienda di assumersi l’onere di verificare gli impatti delle attività sin qui realizzate - possono causare danni per via dell’inquinamento acustico che viene prodotto con le tecniche di prospezione geosismica per la caratterizzazione dei fondali; e attraverso le attività di perforazione vera e propria dei fondali stessi. Greenpeace ricorda che nelle Isole Canarie vi sono 30 specie diverse di cetacei, 28 delle quali sono state ripetutamente avvistate nell’area dove ha operato Repsol. Inoltre l’associazione ambientalista chiede che venga stimato anche il danno prodotto dall’inquinamento chimico e dai fanghi estratti e scaricati a mare”.
Danni gratuiti all’ambiente, causati da politiche sorde che non hanno saputo ascoltare il disappunto delle popolazioni – e talvolta anche delle politiche locali - ma che non sono state in grado neanche di valutare bene il peso economico e ambientale dei cantieri. Eppure nonostante tutti questi fallimenti c’è ancora ENI che detiene licenze per esplorazioni petrolifere nella Groenlandia orientale e “un governo italiano – dichiara Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia- che procede esattamente in questa direzione e punta a sfruttare risorse fossili esigue e di pessima qualità, in spregio alla volontà delle comunità impattate, mentre si frena la crescita delle energie pulite. Nei mari italiani, come abbiamo già fatto nelle acque spagnole, ci opporremo sempre a questi piani scellerati”, conclude.
Alfonsa Sabatino