Il cielo sopra Pechino: come sta cambiando l’ambientalismo cinese
Il cielo sopra Pechino è il primo pensiero che invade la mente di un occidentale quando si parla di Cina e politiche ambientali. Alla coltre di smog che avvolge la capitale della Repubblica Popolare (con relativo corollario di mascherine sanitarie da passeggio e agghiaccianti statistiche sul cancro ai polmoni), di solito si aggiunge il ricordo dello scandalo Foxconn, la grande industria di Shenzen dove si fabbricano iPhone al prezzo di varie forme di inquinamento e qualche suicidio di operai, e magari le immagini delle gigantesche dighe che ormai segmentano quasi ogni fiume cinese. Segue rassegnata riprovazione per un paese che, troppo preso dal suo inarrestabile sviluppo economico, non può, o non vuole, formarsi una coscienza ambientale.
Ma le cose non stanno esattamente così. Quella coscienza infatti esiste, e sta lentamente crescendo tra le maglie allentate dei controlli sull’informazione e la rinascita di una società civile. A raccontarne lo sviluppo e le battaglie c’è, dal 2006, il prezioso sito bilingue Chinadialogue.net, fondato da un gruppo di ricercatori britannici in collaborazione con giornalisti e attivisti cinesi, che ha di recente dato alle stampe “China and the Environment. The Green Revolution”, ottimo strumento per fare il punto sul giovane (e misconosciuto) movimento ambientalista del gigante d’Oriente. Curato da Sam Geall, ricercatore di Oxford ed Executive Editor del sito, il volume è una raccolta di saggi scritti dalle firme più autorevoli di Chinadialogue, che tracciano la storia, analizzano le motivazioni, raccontano successi e sconfitte di alcune delle più importanti campagne e organizzazioni ecologiste cinesi a partire dalla metà degli anni ’90.
L’ambientalismo cinese trova infatti il suo inizio simbolico proprio in quel periodo: il 31 marzo 1994 veniva registrata ufficialmente, presso il Ministero per gli Affari Civili, la prima ONG dell’era post-maoista, l’ormai popolarissima Friends of Nature. Fondata dallo storico e attivista Liang Congjie, l’associazione non solo ha contribuito a dare nuovo coraggio a una società civile rimasta paralizzata dopo lo shock di Tian’anmen nel1989, ma è stata tanto abile da inventarsi un peculiare modello di intervento, fondamentale per l’espandersi del dibattito sui temi ambientali in Cina: non contro, ma con il Governo. “Il governo cinese ha trovato in noi un alleato”, dichiarava il professor Liang, riuscendo ad accreditarsi contemporaneamente come “amico” dello Stato e come agente di cambiamento. La via dettata da Friends of Nature è, insomma, quella di una scaltra diplomazia, cauta nel modo di presentare le questioni (perché le grida di denuncia in un regime portano solo guai…), ma concreta e decisa sugli obiettivi da raggiungere e soprattutto su come raggiungerli, coinvolgendo direttamente, oltre ai media e all’opinione pubblica, i funzionari governativi.
Parrebbe un paradosso, ma addentrandosi un minimo nel funzionamento del sistema politico cinese diventa chiaro che non lo è. Come emerge dalle analisi di Chinadialogue, la vera gatta da pelare per gli ambientalisti cinesi non è tanto il lontano e spesso un po’ ermetico governo centrale, quanto i corrotti potentati locali. Baohù huanjìng (“Proteggi l’ambiente”) e Shanming shuixiù (“Montagne verdi e acqua limpida”) sono da qualche anno entrati di diritto nella batteria di slogan governativi che si trovano addirittura nei libri di lingua per stranieri. Il dictat “develop first, clean up later”, che imperava negli anni ’90, è stato sostituito dal più politicamente corretto “sviluppo sostenibile”.
Che sia o no una questione di immagine, è comunque il segno di un cambiamento, che dall’opinione pubblica si riflette in alcune storiche leggi per la tutela ambientale, tanto importanti, quanto spesso disattese a livello locale (ad es. l’obbligo di attendere una valutazione di impatto ambientale, prima di dare inizio a qualsiasi grande opera di costruzione o impianto di industrie potenzialmente inquinanti). Ed è appunto qui – nel reclamare il rispetto di leggi che già esistono, cercando l’aiuto del potere centrale – che va a inserirsi l’azione della rinata società civile e delle ormai numerosissime ONG (nel 2006 se ne contavano in tutto 500.000, per lo più non registrate ufficialmente; all’inizio del 2012 erano 450.000 quelle registrate, e circa 3 milioni le “irregolari”).
C’è poi tutto il discorso del giornalismo ambientale, che sta ora vivendo una sorta di Età dell’Oro nel panorama dei media cinesi. “L’ambiente in Cina non è considerato politica. I giornalisti trovano così più semplice scrivere di temi ambientali”, ha dichiarato in un’intervista Liu Jianqiang, uno dei più noti cronisti ambientali del paese e firma di punta di Chinadialogue. Ovviamente Liu e i suoi colleghi sanno che non è così, perché le più gravi minacce ecologiche arrivano proprio dagli interessi di potenti lobby, che raggruppano aziende, corporation e governi locali. Ma il centro del Partito è più preoccupato da temi “sensibili” come i diritti umani, ed è così disposto a chiudere un occhio, e magari anche a dare una mano, quando si tratta di una campagna per salvare l’antilope tibetana dall’estinzione. I punti di forza dell’odierna informazione ambientale in Cina sono principalmente due: le recenti concessioni in merito a trasparenza e Open Government Information, che – almeno sulla carta – danno diritto ai cittadini di richiedere dati precisi su emissioni e inquinamento; e, ovviamente, la diffusione di internet e nuovi media, sempre più difficili da mantenere sotto il controllo della censura. Nel periodo di transizione che il paese sta oggi vivendo, il panorama dei media si trova così in una fase che Sam Geall definisce delle “tre C”: controllo, cambiamento e caos. Quando è riuscita a dominare questi tre fattori, la stampa ha spesso dato un contributo essenziale nel successo di alcune campagne-chiave per la storia dell’ambientalismo cinese.
Come accadde nel 2006, quando si trattò di opporsi alla costruzione dell’ennesima gigantesca diga, che avrebbe stuprato il paesaggio da favola della Gola del Salto della Tigre, nella provincia sud-occidentale dello Yunnan. Fu lo stesso Liu Jianqiang – che ora ne dà un appassionato resoconto nel libro – ad interessarsi per primo alla vicenda. Con l’aiuto di un giovane editore e attivista di Pechino, Xiao Liangzhong, Liu raccolse un’enorme mole di informazioni e testimonianze sulle devastazioni ambientali e sociali portate dalla costruzione sistematica di dighe in tutta la Cina. I suoi articoli, stampati e distribuiti, divennero la base per l’attività informativa delle ONG e infiammarono la protesta dei villaggi della zona, finalmente consapevoli, spaventati per il loro futuro e pronti a tutto per difendere la loro terra. Fu come una reazione a catena: la marcia e i sit-in di migliaia di persone arrivarono alle orecchie degli alti funzionari del Governo e la costruzione della diga, in nome della più importante e sempre perseguita “stabilità sociale”, fu bloccata. La campagna in difesa della Gola del Salto della Tigre – chiosa Liu – è la dimostrazione di come emergenti forze sociali, quali i media commerciali, Internet e le ONG, unite alla parte più tradizionale della società, come la popolazione rurale, siano in grado di contrastare gli interessi di potenti lobby e riuscire nell’impresa di farsi ascoltare dal Governo. E’ una felice alchimia che, sebbene trovi ancora raramente le condizioni per verificarsi, ha comunque dettato un modello per il futuro.
Un proverbio cinese avverte che programmi e pianificazioni sono sempre più lenti dei cambiamenti. Oggi in Cina il cambiamento corre veloce, anche nella coscienza ambientale di media e opinione pubblica, e la politica, con i suoi piani quinquennali di sviluppo, dovrà sempre di più fare i conti con chi ha la preparazione, la passione e la prontezza per cavalcare quel cambiamento.
Giorgia Marino