IFAD: la biodiversità è nelle mani dei popoli indigeni
Cinquanta rappresentanti di organizzazioni di popolazioni indigene di tutto il mondo si sono incontrati nei giorni scorsi, a Roma, presso la sede del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (IFAD), per discutere dell’importanza delle conoscenze tradizionali per sconfiggere la povertà e la fame e trasformare le comunità rurali. Si tratta dei rappresentanti di oltre 370 milioni di persone, originarie di circa 70 paesi in tutto il mondo, che si identificano come indigene e che per la maggior parte vivono in aree rurali.
“Ascoltare le popolazioni indigene ci aiuta a sostenere meglio i loro sistemi alimentari tradizionali attraverso i nostri programmi e i nostri progetti”, ha dichiarato Antonella Cordone, specialista tecnico e coordinatrice per le questioni indigene e tribali dell’IFAD che lavora con la popolazioni indigene da molto tempo e, in qualità di facilitatore, sostiene la loro partecipazione ai processi di definizione delle politiche e la preservazione del loro patrimonio culturale.
D) Tra i temi che il Forum sui popoli indigeni ha affrontato, c’è il contributo essenziale rappresentato dai metodi di sussistenza delle popolazioni indigene – basati sulle conoscenze tradizionali e sulla gestione collettiva del lavoro – alla gestione sostenibile delle risorse, della biodiversità e degli ecosistemi. Ci spiega meglio?
R) Da dieci anni, IFAD lavora con i popoli indigeni, ascoltando il loro punto di vista, cercando di comprendere la loro diversità anche rispetto alle altre comunità rurali per capire meglio quale contributo avremmo potuto offrire loro. Quello che abbiamo scoperto, in tutti questi anni, è innanzi tutto, la loro rivendicazione all’autodeterminazione in quanto popolo. Ma la scoperta del loro tratto distintivo riguarda proprio la loro organizzazione collettiva, la rivendicazione dei diritti collettivi rispetto alla terra. E la terra, per loro, non è solo un campo su cui lavorare ma è territorio, non è solo una commodity, qualcosa da sfruttare per renderla produttiva, ma qualcosa da nutrire perché a sua volta perché sia fonte di vita per il popolo.
D) Sulla sostenibilità avete un programma specifico?
R) All’interno di un dialogo più ampio che IFAD ha con i popoli indigeni, c’è anche la sostenibilità: oltre a questo Forum sui popoli indigeni, l’IFAD ha anche il Forum contadino e poi ci sono i parteneriati internazionali all’interno dell’ONU, singoli progetti. Poi a livello Paese, lavoriamo come supporto tecnico provando ad avere un approccio olistico, secondo la prospettiva stessa dei popoli che è quella secondo cui l’ambiente, il sociale, l’economico non sono separati ma fanno parte di una stessa “cosmogonia”.
D) I sistemi alimentari delle popolazioni indigene sono messi a rischio dall’assenza di una forma giuridica specifica di tutela dei diritti di proprietà collettiva delle terre?
R) Dire che non esiste una forma giuridica specifica di tutela dei diritti di proprietà collettiva delle terre non è del tutto corretto, o almeno lo è solo in alcuni contesti. A livello internazionale, sono stati fatti passi avanti: c’è stato un riconoscimento del diritto collettivo alla terra da parte della Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni delle Nazioni Unite – approvata dagli Stati membri nel 2007 – che completa la Carta dei diritti umani. Stesso riconoscimento è contenuto nelle ultime guide volontarie sviluppate della Fao ma soprattutto dalla Convenzione ILO 169 (adottata nel 1989 dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro) che, ratificata dai governi, diventa automaticamente legge. A livello nazionale, diversi Stati riconoscono il diritto collettivo alla terra, come Panama, Bolivia, soprattutto in America Latina. Ma il punto più critico è che proprio non esista riconoscimento dei popoli indigeni in alcuni paesi…
D) Questo rende i terreni di questi popoli più vulnerabili al land grabbing, all’accaparramento delle terre?
R) Certo. Per questo, per la diversità di leggi da Paese a Paese, la legislazione internazionale sta cercando di andare avanti. Questa spinta internazionale dei popoli indigeni è merito delle stesse popolazioni che hanno fatto lobbying per essere riconosciute e vedere tutelati i loro diritti. Anche nel settore privato, molti riconoscono uno dei diritti fondamentali dei popoli che è quello del consenso previo, libero e informato rispetto alle attività che poi devono essere messe in pratica nei territori dei popoli. Il fenomeno del land grabbing purtroppo riguarda soprattutto (ma non solo) i popoli: se è vero che l’80% della biodiversità è mantenuta, oggi, proprio in quelle zone dove vivono i popoli indigeni, lo è grazie alla loro sostenibilità e alla capacità di preservare la natura, che è madre, per le future generazioni. In un momento in cui le risorse naturali scarseggiano per tutti, una tale opera di conservazione della biodiversità crea tensioni, causate dai grandi interessi di chi vorrebbe accaparrarsi quelle risorse.
D) Qual è in questo senso il ruolo di IFAD?
R) IFAD, in questo contesto, cerca di giocare un ruolo soprattutto di dialogo: questi popoli hanno storie di diritti negati che stentano a trovare spazi di dialogo con i governi. Non sempre ci riusciamo ma negli ultimi anni abbiamo più volte avuto la capacità di far sedere tutti intorno a uno stesso tavolo per discutere delle questioni più importanti: ed è ancora più difficile per i popoli indigeni, nell’ambito di processi globali tanto complessi, essere realmente ascoltati.
D) Avete provato a mappare i diversi fattori di pressione esterna che contribuiscono alla riduzione della biodiversità ed erodono le conoscenze tradizionali, minacciando la sicurezza alimentare non solo delle popolazioni indigene ma di interi paesi?
R) Sulla base dello scambio che c’è stato, alla grande ricchezza di conoscenze che c’è all’interno delle popolazioni indigeni purtroppo corrisponde una grande minaccia che esiste ed è rivolta contro i diritti alla terra. Perché se questi sono riconosciuti anche le conoscenze tradizionali – pratiche agricole, saperi che si tramandano – hanno chance per essere preservate. Un altro aspetto evidenziato è il fatto che i sistemi di produzione industrializzata non riconoscono la diversità delle colture di ciascun popolo – fondamentale per far fronte al cambiamento climatico. Se tutta questa ricchezza si disperdesse – di colture e di conoscenza pre-scientifica che i popoli hanno – sarebbe la fine. Faccio un esempio: quando c’è stato lo tsunami, le uniche tribù che si sono salvate nel Sud dell’India, sulle isole Andamane, sono state proprio le tribù dei popoli indigeni che hanno riconosciuto i segni dello tsunami e si sono ritirate sulle montagne. Si perde questo: un patrimonio dal valore inestimabile che nessun computer potrà mai soppiantare.
Ilaria Donatio