COP21: tutto quello che c’è da sapere sulla Conferenza sul Clima di Parigi
“Non abbiamo un piano B perché non esiste un pianeta B”. Il Ministro degli Esteri francese Laurent Fabius lo ha detto chiaro e tondo un mese fa: la Conferenza sul Clima di Parigi è cruciale per il futuro del mondo. “Parigi 2015 è l’ultima chiamata”, ha ribadito anche il nostro Ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti. Insomma, dalla COP21, che si apre il 30 novembre, è indispensabile uscire con un accordo ambizioso e soprattutto vincolante per ridurre a livello globale le emissioni di CO2 e contenere il riscaldamento del pianeta. È prioritario, anche ora che – dopo gli attentati del 13 novembre – il mondo sembra avere tutt’altre priorità.
Malgrado l’importanza del summit di Parigi, pochi però sanno davvero di cosa si tratta, almeno in Italia. Da uno sconfortante sondaggio commissionato da Legambiente in settembre, emerge che solo il 29% degli italiani dichiara di conoscere la COP21. Per non arrivare impreparati all’appuntamento è utile allora un breve vademecum con tutto quello che c’è da sapere.
Cos’è la COP21
La XXI Conferenza delle Parti (COP21) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) si tiene a Parigi dal 30 novembre, data ufficiale dell’inaugurazione, fino all’11 dicembre 2015. Le Nazioni Unite hanno però optato per un inizio anticipato dei lavori domenica 29 novembre, così da sfruttare al massimo la presenza dei capi di Stato nei primi giorni del summit.
L’UNFCCC (lungo acronimo per United Nations Framework Convention on Climate Change) è un trattato ambientale ratificato a Rio de Janeiro nel 1992, durante la Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite (UNCED), meglio nota come il Summit della Terra.
Chi partecipa
All’appuntamento di Parigi, presieduto dal Ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, prendono parte i rappresentanti di 195 nazioni. In tutto saranno operativamente coinvolte circa 40mila persone, di cui 25mila delegati ufficiali (non solo rappresentanti governativi, ma anche ONG, agenzie delle Nazioni Unite, organizzazioni intergovernative e società civile) e più di 3.000 giornalisti accreditati.
Per l’apertura ufficiale del 30 novembre sono attesi 147 capi di Stato, tra cui lo “scettico climatico” Vladimir Putin, il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, il Primo Ministro indiano Narendra Modi e il Presidente cinese Xi Jinping.
I precedenti: 20 anni di conferenze sul clima
La storia delle Conferenze sul Clima comincia nel 1992 con il “Summit della Terra” di Rio, conclusosi con la stesura dell’UNFCCC: i 154 paesi partecipanti firmarono un trattato per la riduzione delle emissioni di gas serra nell’atmosfera, con l’obiettivo di arrivare, entro il 2000, a una stabilizzazione delle emissioni rispetto ai livelli del 1990. L’accordo però non prevedeva alcun vincolo legale per i firmatari, che tuttavia, dal 1994, decisero di incontrarsi ogni anno per fare il punto della situazione in una Conferenza delle Parti.
La prima conferenza, la COP1, si tenne a Berlino nel 1995 e subito emersero serie preoccupazione sull’efficacia delle misure messe a punto dai singoli paesi per tenere fede agli impegni della Convenzione di Rio. Le nazioni in via di sviluppo furono comunque esentate da obblighi vincolanti, sulla base del principio delle “responsabilità comuni, ma differenziate” emerso a Rio.
Nel 1997 Kyoto fu teatro della più importante fra le conferenze sul clima svoltesi fino ad oggi. Dalla COP3 si uscì con la firma del Protocollo di Kyoto, il primo trattato mondiale sulla riduzione delle emissioni di gas serra. Buona parte dei paesi industrializzati e molte economie in transizione accettarono accordi legalmente vincolanti per la riduzione delle emissioni (in media fra il 6% e l’8%) da raggiungere tra il 2008 e il 2012. A diverse grandi economie in via di sviluppo, come Cina, Corea del Sud e Messico, venne invece permesso di continuare a crescere senza nessun impegno a ridurre le proprie emissioni.
Il Protocollo, fortemente voluto dall’allora vicepresidente americano Al Gore, fu esplicitamente rigettato nel 2001 dall’amministrazione Bush. Con gli Stati Uniti fuori, il trattato non poteva entrare in vigore: sarebbe infatti dovuto essere ratificato da un numero di paesi sufficiente a rappresentare il 55% delle emissioni di gas serra globali e gli USA al tempo detenevano il primato.
Le cose cambiarono nel 2004 con la ratifica da parte della Russia, che mostrava il suo lato politically correct più che altro per essere accettata nel WTO.
La COP11, tenutasi a Montreal nel 2005, segna dunque, finalmente, l’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto e contemporaneamente l’estensione della sua validità oltre il 2012. Nel 2007, alla COP13 di Bali, le delegazioni – comprese quella americana, indiana e cinese – stabiliscono una Road Map per il dopo-Kyoto, che prevede anche aiuti ai paesi emergenti da parte di quelli più ricchi per sviluppare energia pulita. Nel 2009, con la COP15 di Copenhagen, si fa un piccolo passo avanti. L’accordo faticosamente raggiunto, proposto da Stati Uniti e Cina con l’aiuto di India, Brasile e Sud Africa e accettato con un po’ di delusione dall’Europa, prevede l’impegno a contenere entro i 2°C l’aumento di temperatura del pianeta e quantifica gli aiuti finanziari per incrementare le tecnologie verdi nei paesi in via di sviluppo (30 miliardi di dollari all’anno tra il 2010 e il 2012, fino ad arrivare a 100 miliardi nel 2020). È un accordo imperfetto e non vincolante, ma è ancora in piedi ed è la base da cui si parte a Parigi.
Gli obiettivi
L’obiettivo condiviso della COP21 è ottenere, per la prima volta in vent’anni, un accordo universale per contenere il riscaldamento globale entro i 2°C, limite riconosciuto dalla comunità scientifica per evitare gli effetti più disastrosi del cambiamento climatico. Procedendo al ritmo odierno di emissioni climalteranti si arriverebbe a un aumento di 5°C della temperatura media: una catastrofe per la civiltà umana.
Nell’ipotesi migliore, i 12 giorni di negoziati parigini dovrebbero dunque portare alla redazione di un documento vincolante, con impegni concreti per tutti i paesi aderenti, regole e sanzioni precise e un sistema di verifica quinquennale dei risultati raggiunti. Questo almeno è quanto si augura l’Unione Europea. Ma tra gli osservatori è già diffuso un certo pessimismo sulla reale possibilità di raggiungere un trattato universale davvero efficace. Gli Stati Uniti continuano a propendere per accordi non vincolanti, come ha da poco dichiarato il capo del Dipartimento di Stato John Kerry. E la Cina, per parte sua, farà leva sul principio delle “responsabilità comuni ma differenziate” per continuare a godere dello status di “economia emergente” e a crescere senza troppi obblighi da rispettare. Se Cina e Stati Uniti, i due maggiori produttori di CO2 (rispettivamente sono responsabili del 29% e del 15% delle emissioni globali), rimangono fuori dai patti ancora una volta, la COP21 rischia di trasformarsi in un colossale flop.
Cosa c’è sul tavolo
Dei 195 paesi partecipanti al summit, 162 hanno presentato in ottobre le proprie strategie di riduzione delle emissioni di gas climalteranti. Secondo il Ministro italiano dell’Ambiente Gian Luca Galletti questo sarebbe un dato incoraggiante: “Si parla di una fetta di nazioni responsabili del 96% delle emissioni globali di CO2 – ha dichiarato ai microfoni dell’Ansa – Un dato importante rispetto a Kyoto: allora i paesi impegnati rappresentavano solo il 12% delle emissioni”. Anche la Cina, nonostante l’insistenza sulle responsabilità storiche differenziate, ha presentato il suo piano di riduzione, che prevede il raggiungimento del proprio picco di emissioni entro il 2030 e l’impegno ad aumentare la quota di energia di origine non fossile (la Repubblica Popolare è oggi il maggior consumatore di carbone al mondo). L’India invece non pare intenzionata ad accettare limitazioni all’uso di combustibili fossili, considerato che la sua economia è ancora in via di sviluppo e che il consumo energetico pro-capite dei suoi 1,2 miliardi di abitanti è tuttora al di sotto della media mondiale.
Una delle questioni più spinose della COP21 sarà proprio la definizione di un fondo da 100 miliardi di dollari annui per aiutare i paesi più poveri a sviluppare tecnologie verdi e risarcire quelli più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico.
Sul tavolo ci sarà anche l’EGA, Environmental Goods Agreement, l’accordo che Stati Uniti, Cina, Unione Europea, e altri 11 stati membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) hanno avviato nel 2014 per eliminare i dazi doganali su una lista di prodotti ecologici in grado di contrastare il cambiamento climatico.
La posizione dell’Italia
L’Italia andrà a Parigi “dando il buon esempio”. Lo ha detto il Ministro Galletti all’ultimo incontro pre-COP21 di tre settimane fa: “La nostra posizione è chiarissima: abbiamo firmato un accordo tra tutti i 28 Paesi europei che impone la riduzione di CO2 entro il 2030 di almeno il 40% ed è un obiettivo vincolante, con sanzioni. Quindi, indipendentemente da quello che capiterà a Parigi, noi l’obiettivo lo abbiamo già fissato e chiederemo a tutti gli altri Stati di impegnarsi almeno quanto ci siamo impegnati noi”. L’impegno italiano prevede inoltre una riduzione di almeno il 50% delle emissioni entro il 2050, per arrivare alla neutralità entro la fine del secolo.
Non basta: la delegazione italiana proporrà infatti un obiettivo ancora più ambizioso, spronando tutti i paesi partecipanti ad abbassare ulteriormente il limite del riscaldamento globale al di sotto degli 1,5°C, così da proteggere città e piccoli arcipelaghi che rischiano di essere sommersi dall’innalzamento del livello del mare.
Cosa cambia dopo gli attentati di Parigi
La 21ª Conferenza sul Clima si svolgerà in un’atmosfera completamente diversa da tutte le precedenti. Gli attentati del 13 novembre hanno ovviamente portato a una riorganizzazione logistica del summit e a una stretta radicale alle maglie della sicurezza. L’allerta terrorismo avrà però conseguenze negative su almeno tre fronti. Sul fronte mediatico – già è più che evidente – la visibilità della COP21 ha perso notevolmente terreno rispetto a ciò che ora è visto come una minaccia più terribile del cambiamento climatico e di certo più immediata. In secondo luogo, per la società civile sarà molto più difficile far sentire la propria voce e fare pressione sui leader mondiali. In oltre 150 paesi (Italia compresa) si terrà una Marcia Globale per il Clima domenica 29 novembre; ma non a Parigi, dove sono state cancellate gran parte delle manifestazioni collaterali, soprattutto se all’aperto: niente cortei, concerti, dibattiti o altre attività culturali e sportive organizzate da Ong o associazioni. Per il movimento ambientalista sarà forse la conferenza sul clima più frustrante della storia.
Infine c’è l’aspetto diplomatico. Fuori dalle conferenze e dai panel ufficiali, nei “corridoi” ufficiosi della COP21 o durante gli incontri bilaterali fra i potenti della Terra, c’è il forte rischio che l’argomento terrorismo prevalga su quello del clima. D’altra parte – come osservano i commentatori del “Guardian” – la tensione potrebbe invece spingere verso un accordo: un trionfo della cooperazione internazionale, in vista di obiettivi di benessere e sicurezza globali, sarebbe una bella iniezione di fiducia, una boccata d’aria per un mondo oggi più che mai scosso e impaurito.
Giorgia Marino