Cina: tra centrali a carbone e “villaggi del cancro”. La guerra di Li Keqiang
Davanti a una situazione tragica e alle critiche della popolazione, il primo ministro cinese Li Keqiang ha dovuto dichiarare guerra all’inquinamento. “È l’allarme rosso della natura contro un modello di sviluppo miope e inefficiente”, ha detto Li durante l’ultima Assemblea Nazionale del Popolo (la riunione annuale del Parlamento). Per cui, ha continuato, la Cina combatterà l’inquinamento con la stessa determinazione con cui negli ultimi decenni ha affrontato la povertà.
La guerra è aperta, ma secondo lo stesso Li Keqiang è l’intero modello cinese a essere sotto accusa. Perché, nel 2013, mentre il Pil cresceva (pur con un relativo rallentamento), centinaia di milioni di automobili inquinavano l’aria, migliaia di fabbriche impestavano acqua e terreni attorno agli impianti, tonnellate di rifiiuti non trattati contaminavano l’ambiente. Il 92% delle città cinesi non ha raggiunto i livelli di sicurezza per la concentrazione delle particelle PM 2.5 nell’aria.
Intanto, se guerra deve essere, il governo ha iniziato a sfoderare i propri armamenti. Nelle zona di Pechino, nello Shanxi e nell’Hebei – alcune fra le aree più inquinate del Paese – quattro droni percorrono i cieli per sorvegliare le fabbriche che emettono illegalmente fumi tossici e permettere alle autorità di intervenire. Nella provincia centrale dell’Hubei, invece, il governo locale sta sperimentando un altro tipo di velivolo, all’apparenza più rudimentale, che spruzza nell’aria un composto chimico in grado di disperdere le nebbie inquinate. Altre iniziative erano già state messe in atto negli scorsi mesi. Ad esempio la sperimentazione di un sistema di carbon trading per spingere le aziende a ridurre le emissioni di CO2 in cambio di incentivi economici, applicato prima a Shenzhen e poi a Shanghai, Pechino e altre città. Oppure un programma di riforestazione per riportare la percentuale di terra coperta da boschi e alberi almeno al 23% entro il 2020.
La principale risposta del governo all’emergenza ambientale rimane comunque l’ambizioso Action Plan lanciato lo scorso settembre che prevede investimenti per quasi 165 miliardi di euro. Il Piano ha l’obbiettivo di migliorare le tecnologie produttive, incrementare la diffusione delle auto elettriche e portare la quota di carbone nel mix energetico del Paese al di sotto del 65% del totale, anche grazie all’aumento dell’uso dell’energia nucleare, di quella geotermica e dell’estrazione di gas. Ma è qui che le contraddizioni cinesi diventano più evidenti. Perché mentre è ormai chiaro che le centrali a carbone sono fra le maggiori reponsabili dell’inquinamento, il governo ha approvato i progetti di quindici nuovi impianti che, secondo calcoli effetttuati dall’agenzia di stampa Reuters sulla base di dati ufficiali, faranno aumentare la produzione di carbone di un 2-3% all’anno rispetto al 2012. Non solo. Proprio nei giorni in cui l’Assemblea del popolo prometteva di cambiare “il modo in cui in Cina viene prodotta e consumata l’energia”, è uscita la notizia che l’anno scorso il governo ha ridotto di quasi un decimo il budget destinato alla protezione dell’ambiente, utilizzando poi solo l’86% dei 180 miliardi di yuan (circa 21 miliardi di euro) a disposizione. Il Ministero delle Finanze ha dichiarato che per quest’anno i fondi saliranno a 210 miliardi di yuan. Le immagini della Città Proibita di Pechino avvolta nello smog hanno fatto il giro del mondo.
Ma questa è solo una delle emergenze che preoccupano la Cina. Secondo un’indagine ministeriale di due anni fa, la qualità di metà delle acque nazionali è “povera” o “molto povera”, e solo l’11% ha raggiunto il livello di eccellenza. Secondo un altro studio pubblicato su Science, almeno venti milioni di persone (soprattutto nelle regioni del nord) sarebbero esposte ad avvelenamento da arsenico che ha contaminato le acque usate per bere, lavarsi e cucinare. Ci sono poi i cosiddetti “villaggi del cancro”, sobborghi urbani o nelle vicinanze di distretti industriali in cui le percentuali di malati e morti di tumore fanno impallidire le medie nazionali. Ancora una volta la causa sono gli scarichi industriali.
Il primo ministro Li Keqiang ha paragonato la guerra all’inquinamento intrapresa dal governo a quella combattuta fin dall’inizio degli anni Ottanta contro la povertà. Da allora 600 milioni di cinesi sono saliti sopra la soglia minima di reddito ma quella battaglia non è ancora stata vinta. Circa il 13% della popolazione è ancora sotto la poverty line, fissata dal governo a 6,3 yuan al giorno (un breve viaggio in metropolitana ne costa 3). Milioni e milioni di persone. In maggioranza sono contadini, molti lasciano la campagna e giungono a Shanghai con tutti i loro averi in un sacco di plastica, oppure trovano rifugio appena fuori Pechino in capanne col tetto di paglia o ancora si accalcano a Shenzhen o Chongqing sperando di trovare lavoro in fabbrica. L’alternativa è la fame, spesso proprio in quelle zone – il nord, le regioni vicino alle grandi metropoli – che più pagano lo sviluppo folle del Paese, in termini di aria inquinata, falde acquifere contaminate forse per sempre, incidenza di cancro e altre malattie. Nella lotta della Cina per uscire dalla povertà in tanti hanno vinto. Molti di più hanno continuato a perdere e tutt’ora non godono della ricchezza cinese. Il rischio che la storia si ripeta per le condizioni ambientali è reale. Ed è assai probabile che gli sconfitti siano sempre gli stessi.
Matteo Acmè