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Ci salverà Magnette? Storie di democrazia ambientale e tecnocrazia nel no della Vallonia al CETA

La data ufficiale di firma del trattato CETA, l’accordo commerciale tra UE e Canada, sarebbe dovuta essere, dopo ben 5 anni di discussioni, il 27 ottobre, con tanto di primo ministro Trudeau a Bruxelles. Ma a “rovinare la festa” ci sta pensando il parlamento vallone, l’assemblea di una regione del Belgio formata da poco meno di 4 milioni di abitanti.

Ma facciamo un passo indietro. Cos’è il CETA e quali sono le sue implicazioni dal punto di vista ambientale? Per semplificare potremmo dire che si tratta del corrispettivo canadese (con tanto di negoziati segreti), del ben più famoso TTIP con gli Stati Uniti. Cioè un estesissimo – in termini di settori e risorse impiegate – accordo commerciale tra Canada e Unione Europea che ricalca praticamente in tutto e per tutto il gemello USA. A partire dallo spinosissimo tema dell’arbitrato e dalle enormi concessioni fatte alle multinazionali.

Secondo chi lo contesta, l’eliminazione degli “ostacoli” alla produttività delle aziende porterà in realtà a una diminuzione della sicurezza alimentare, dei diritti dei lavoratori e delle tutele ambientali. Un esempio, secondo quanto riportato dal The Guardian, è quello delle cosiddette tar sands, o sabbie bituminose. Si tratta di sabbie impregnate di petrolio misto ad acqua e argilla, che si trovano in superficie e il cui processo di estrazione causa grossi danni all’ambiente (molto più del petrolio “convenzionale”). La maggior parte delle tar sands viene estratta nell’Alberta, in Canada, e con l’approvazione del CETA, il loro uso potrebbe diventare più facile anche in Europa (dove, al contrario, si pensava di tassarlo maggiormente, per scoraggiarne l’import).

Proprio come il TTIP, poi, si prevede la riforma del sistema degli arbitrati: con il CETA saranno creati dei nuovi tribunali per la risoluzione delle controversie tra aziende e Stati (clausola ICS – Investment Court System, ovvero il sistema giudiziario arbitrale per la difesa degli investimenti). Secondo gli oppositori, il trattato potrà essere impugnato dalle multinazionali per fare causa a uno Stato per tutelare i loro profitti, anche nel caso si stia proteggendo l’interesse pubblico, l’ambiente o la salute dei cittadini. Ma non finisce qui. L’accordo permetterebbe infatti alle aziende canadesi di avere accesso agli appalti per tutti i servizi pubblici, compresi quelli legati all’acqua. Qualora le autorità pubbliche decidessero di riportare i servizi pubblici sotto il controllo delle autorità pubbliche locali, rischierebbero di ricevere richieste di risarcimento da parte degli investitori canadesi!

Il Canada, come se non bastasse, è il terzo principale produttore di OGM e nel Paese non esiste etichettatura. Sono ammessi la ractopamina negli allevamenti dei suini (uno steroide già vietato in oltre 160 Paesi), i neonicotinoidi (pesticidi sistemici) e sin dagli Anni 80 gli ormoni nella carne bovina, così come fanno gli Stati Uniti. E la lista sarebbe lunga. Ecco spiegato il motivo per il quale Il CETA contiene anche una versione annacquata del principio di precauzione, che rischia di aprire la strada a un indebolimento degli standard ambientali europei. Secondo il principio precauzionale, che sta alla base delle normative europee, se ci sono dubbi ragionevoli circa la pericolosità di un alimento o una sostanza per la salute pubblica, le autorità devono vietarla. In gran parte del mondo domina invece l’”approccio scientifico“, secondo il quale è possibile introdurre divieti solo se c’è una “prova evidente” (che potrebbe essere cercata per decenni), ovvero non basta il dubbio ragionevole per bloccare il commercio di un alimento.

Dato non trascurabile, infine, è il fatto che le associazioni ambientaliste e i movimenti nati attorno alla contestazione del TTIP considerano il trattato con il Canada il cavallo di troia di quello con gli USA. Vista la stretta integrazione fra i colossi industriali e agroalimentari statunitensi e canadesi. E poi, banalmente, dopo avere detto sì al primo perderebbe senso anche continuare a bloccare il secondo.

Ma com’è possibile che possa essere un parlamento regionale a bloccare i negoziati? Giuridicamente il CETA è un accordo misto. Contiene, cioè, non solamente disposizioni in materia commerciale – per le quali basterebbe l’ok solo da parte delle istituzioni europee – ma alcune materie che, come da trattati UE, sono in codecisione. Questo significa che anche i parlamenti nazionali devono dare il proprio assenso. Il Belgio però è un’eccezione nelle eccezioni. Il suo originalissimo sistema vuole che l’assemblea federale debba ottenere prima il via libera di quelle regionali. Le quali, di fatto, hanno un potere considerevole.

Che cosa sostengono dunque i belgi valloni? La battaglia è incarnata nella figura di Paul Magnette, ministro presidente della Vallonia e, dato non trascurabile, professore di Scienze Politiche all’Université Libre de Bruxelles. Uno che le regole del gioco le conosce bene… E che aveva già avanzato perplessità sul testo dell’accordo tempo fa alla Commissione, la quale ha poi sottoposto al Parlamento vallone una serie di testi complementari, poi esaminati. Al netto dei progressi, secondo Magnette c’erano ancora lacune relative alla protezione dell’agricoltura e in materia di regolamenti delle tecniche d’arbitrato. “Ho sempre detto di essere naturalmente favorevole a un trattato con il Canada, un trattato che sia avanzato, ma noi aspettiamo garanzie in materia di rispetto delle norme sociali, ambientali, dei diritti umani, di protezione del consumatore”, ha dichiarato il presidente. Che ha aggiunto: “Riaprire i negoziati con il Canada sarebbe la soluzione migliore”.

La coraggiosa posizione di Magnette e dei valloni belgi non è comunque del tutto isolata e, in fondo, fa comodo anche a chi ha maggiore difficoltà ad esprimersi così esplicitamente. Alcune preoccupazioni, anche se non ufficialmente, sono ampiamente condivise. È un gioco classico della diplomazia. Poi c’è un attore non trascurabile e cioè la “società civile europea”, che ha messo in campo un movimento di contestazione forte e, soprattutto, transnazionale. Il 13 ottobre scorso, per esempio, la Corte Costituzionale tedesca, interpellata da tre organizzazioni non governative, ha posto alcune condizioni per il via libera dell’accordo da parte dell’esecutivo. E anche una parte, seppur esigua di parlamentari europei si è schierata dalla parte di Magnette.

E adesso? Dopo la conferma del no vallone il presidente del Parlamento Europeo Martin Schultz ha dichiarato, ottimisticamente, di “non vedere problemi che non si possano risolvere”. Per altro il vertice euro-canadese per la firma dell’accordo non è stato ancora ufficialmente annullato. E pare che pressioni incrociate siano in corso per spingere il parlamento vallone a dire sì. Possono comunque entrare in vigore, prima della ratifica nazionale, solo quelle parti dell’accordo di competenza esclusiva dell’UE. Ciò significa che tutte quelle parti in cui i governi esprimono preoccupazioni circa il rispetto del principio di sussidiarietà, andranno riviste finché non vi sarà chiarezza.

Beatrice Credi

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