Carbon Tax o “giustizia climatica”? Questo è il problema.
Greenews.info ha intervistato, in parallelo, gli europarlamentari Oreste Rossi (Lega Nord) e Vittorio Prodi (Pd), entrambi membri della Commissione Ambiente del Parlamento Europeo, sul delicato tema delle emissioni, che sarà nuovamente discusso, a livello internazionale, nella Conferenza sul Clima di Cancun (COP16) di fine novembre.
D) Il testo della Direttiva IPPC (Integrated Pollution Prevention and Control), proposto dalla Commissione, è stato ritenuto dal Consiglio troppo penalizzante per alcune aziende (anche italiane) impegnate nella produzione di energia e si è giunti alla fine ad un compromesso. Ci può illustrare meglio la questione e spiegare come è possibile, dal suo punto di vista, conciliare l’esigenza di ridurre l’inquinamento e i gas serra - soprattutto in un’area fortemente industrializzata come la Pianura Padana – con la necessità di non infierire su un’economia già in crisi?
Rossi) In Italia purtroppo è vero che si è investito meno che in altri paesi nell’ammodernamento degli impianti di combustione. Se fosse passato il testo iniziale della direttiva si sarebbero però favorite le industrie di quei paesi, come la Germania e l’Austria (che hanno iniziato a investire 10 anni fa), a scapito di Italia, Spagna, Francia e Grecia, che non avrebbero mai potuto raggiungere i target di riduzione previsti. In futuro si potrebbe anche pensare a una delocalizzazione europea che consenta di ridurre la concentrazione di aziende in aree ad alta densità come la Pianura Padana, ma questo non può certo avvenire, per imposizione normativa, in due o tre anni, perché avrebbe ripercussioni folli sul mondo del lavoro. C’è poi un altro problema: la direttiva, nella formulazione iniziale, prevedeva il principio per cui gli impianti devono utilizzare sempre le migliori tecnologie disponibili. Questo significa un continuo adeguamento tecnologico che le imprese non sono in grado di sostenere. Oltretutto il principio BAT (best available technology) si andava a sommare ai parametri di emissione, per cui anche rispettando i limiti di emissione, l’azienda sarebbe comunque stata costretta a investire in nuove tecnologie, se disponibili. Nella versione finale, grazie all’intervento del Consiglio, si è stabilito di inserire sempre una valutazione benefici ambientali – costo economico. E’evidente che se il beneficio ambientale è minore dell’impatto economico – che può portare anche alla chiusura dell’azienda – l’operazione non ha senso. Io avevo già fatto presenti questi problemi in Commissione Ambiente, poi il Consiglio ha avanzato le stesse obiezioni e si è trovato un compromesso su richieste decisamente inferiori rispetto a quanto inizialmente chiesto dalla Commissione. Sopratutto si è accettato il principio delle emissioni “medie”, senza multare “il picco”, che è dovuto inevitabilmente alle modalità di funzionamento di certi impianti, che consumano di più in fase di avvio e spegnimento.
Prodi) Innanzitutto bisogna sottolineare il fatto che migliorare le condizioni climatiche è un investimento. A questo riguardo la direttiva IPPC propone un approccio integrato, che consente di inserire i gas serra tra le altre emissioni inquinanti, innestando così una convenienza verso le energie rinnovabili. Proprio perché siamo in un momento di crisi economica è dunque auspicabile che vengano fatti questi investimenti, che tra l’altro si pagano da sé in pochi anni. Gli incentivi sono competenza degli Stati membri, l’Unione Europea fornisce solamente una cornice, come quella del “20-20-20”. La direttiva IPPC regolamenta anche altre emissioni, i cosiddetti inquinanti convenzionali, per cercare di offrire la risposta più completa e meno costosa possibile agli interventi di riduzione dell’impatto ambientale delle imprese.
D) Sarebbe favorevole all’introduzione di una Carbon Tax sui prodotti provenienti da paesi che non si impegnino a firmare accordi legalmente vincolanti sulle emissioni? Vede fattibile questa proposta in sede di WTO (World Trade Organization)?
Rossi) Certo. Quando i prodotti di paesi che non si impegnano a firmare gli accordi di riduzione arrivano alle frontiere, devono essere tassati con una carbon tax, che verrà eliminata quando firmeranno accordi vincolanti. Con i soldi incassati l’Europa potrà aiutare le proprie aziende a migliorare gli impianti e ridurre le emissioni. Questa è l’unica strada possibile senza massacrare l’economia. Se decidiamo invece di andare da una multinazionale, come un’acciaieria (e qui torniamo alla IPPC) che dà lavoro a 5.000 persone e la multiamo con qualche milione di euro perché sfora i valori medi imposti dalla direttiva, questa inevitabilmente delocalizzerà la produzione all’estero, in quei paesi dove la manodopera costa un quinto e potrà inquinare il 30-40% in più. Per l’ambiente cosa cambia dunque? Senza contare che il contribuente italiano si troverebbe anche a pagare la cassa integrazione ai lavoratori licenziati. Qualche settimana fa il presidente del Parlamento Europeo Buzek si è fatto promotore di un incontro interparlamentare, tra una delegazione del Parlamento Europeo e i rappresentanti dei 27 stati membri (più quelli “in attesa”, come la Turchia), sul mercato mondiale del carbonio. In quell’occasione io ho riproposto l’idea della carbon tax. La risposta del presidente Buzek è che lui sarebbe favorevole, e questa è un’ottima notizia. Nella Proposta di Risoluzione della Commissione Ambiente non c’è però traccia di ciò.
Prodi) Quella proposta non è una vera carbon tax, ma una tassa di compensazione, di ingresso alla frontiera. Una carbon tax comporterebbe la tassazione, all’origine, dell’impiego di combustibili fossili, ma rimarrebbe pur sempre una tassa, con il problema di capire cosa se ne vuole fare. Certamente potrebbe avere l’effetto di disincentivare l’impiego di combustibili fossili, però bisognerebbe capire come destinare questi fondi alle attività di contenimento dei cambiamenti climatici e alla protezione delle foreste, in particolare nei paesi in via di sviluppo, che dovrebbero ricevere un indennizzo per compensare lo sforzo di conservazione del patrimonio naturale, nell’interesse di tutta l’umanità e del pianeta. Al contrario il sistema ETS (Emissions Trading Scheme) potrebbe già contenere dei meccanismi di questo tipo. Per poter attuare poi, attraverso il WTO, un sistema di dazi alle frontiere, tutte le istituzioni che derivano dai trattati di Bretton Woods dovrebbero confluire nelle Nazioni Unite, per dare una disciplina comune e un sistema di attuazione condiviso. In alternativa salterebbe il WTO.
D) Ho qui sulla scrivania un documento di seduta della Commissione Ambiente del PE con una Proposta di Risoluzione avanzata da Corinne Lepage e altri in vista del vertice di Cancun. Ne condivide l’impostazione?
Rossi) Le soluzioni possono essere molte. A Cancun non si deve però andare però con un “libro dei sogni”, come l’attuale bozza, dove addirittura si richiede una riduzione delle emissioni CO2 al 2050 dell’80%. L’Europa potrebbe arrivare al 25%, ma non certo al 30 o al 35% al 2020, come si propone. Non si tratta di capire come, semplicemente non si può fare, è concretamente impossibile, quindi è inutile chiederlo. Così come è folle chiedere, mentre l’economia mondiale è in ginocchio, che l’Europa possa trasferire 30 mld. di euro l’anno ai paesi emergenti.
Prodi) Da questo punto di vista sono molto pessimista perché l’impostazione del negoziato non tiene conto in nessun modo della Dichiarazione di Bali e cioè della responsabilità comune anche se differenziata. Io a riguardo ho una mia posizione che è quella di una giustizia climatica, che deve tenere conto di responsabilità diverse tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo. Noi siamo infatti i principali responsabili dello stock di gas a effetto serra che sono già nell’atmosfera. In sintesi il mio ragionamento è questo: le emissioni medie mondiali di CO2 sono oggi di 5 tonnellate per persona all’anno. Noi dobbiamo arrivare a 1/5, ovvero 1 tonnellata per persona all’anno. La disciplina delle emissioni dovrebbe essere del tutto generalizzata, le emissioni dovrebbero cioè essere pagate su base d’asta – con l’eccezione di questa franchigia, che potrebbe essere considerata un livello sostenibile e concessa dunque gratuitamente: 1 tonnellata per persona all’anno. Tutti, anche in futuro, dovranno avere questo diritto. Questo vuol dire però che gli Stati Uniti, che emettono 20 tonnellate pro capite all’anno dovranno pagarne 19, l’Europa, che ne consuma 10, dovrà pagarne 9. La Cina ne ha, come la media mondiale, 5 e ne dovrà perciò pagare 4. L’India ne dovrà pagare 2 su 3 e l’Africa che ne consuma 0,2 tonnellate potrà mettere sul mercato quelle 0,8 tonnellate a persona con le quali permettersi un’attività sistematica di adattamento ai cambiamenti climatici. Non c’è rischio di delocalizzazione se questo diventa un accordo mondiale. Questo dev’essere il “piano A” dell’Europa: cercare un accordo globale attraverso il quale tutte le aziende siano messe su un piano di parità. L’UE ha invece iniziato subito con il “piano B”, dando cioè subito dei permessi di emissione gratuita per evitare la delocalizzazione dell’industria ad alta intensità energetica. Ma è proprio questo che oggi ci impedisce di arrivare a qualsiasi accordo globale. Io sono totalmente in disaccordo con questa impostazione.
D) E’dunque pessimista sulla possibilità di trovare un accordo vincolante a Cancun?
Rossi) Chiedere cose impossibili non serve a nulla, chiedere cose fattibili può portare ad un risultato. Si dovrebbe perciò chiedere ai Paesi di impegnarsi, per iscritto, a ridurre le emissioni in maniera credibile: può essere il 10, il 15, massimo il 20% al 2020. Se un documento come l’attuale Proposta di Risoluzione, sostanzialmente uguale a quello di Copenhagen, uscirà dal Parlamento Europeo, verrà nuovamente usato come carta da minuta dai grandi della Terra.
Prodi) Sono pessimista proprio perché non c’è la volontà di fare accordi basati sull’equità e sulla giustizia e perché vedo quello che è il veleno di qualsiasi accordo internazionale, ovvero la risorgenza di tanti nazionalismi, di tante posizioni miopi, a breve termine, che impediscono di vedere invece l’interesse generale. La proposta con la quale l’Europa si presenterà a Cancun non mi consta che sia sostanzialmente diversa da quella che è stata già bocciata a Copenhagen. Si ripresenterà la stessa scena, peggiorata da una posizione che temo ancora più debole da parte del Presidente degli Stati Uniti, condizionato dalle elezioni di mezzo termine e per questo ancora meno disponibile a fare delle concessioni – proprio per questo mito della sovranità assoluta dello stato nazionale. Ma noi tutti siamo interdipendenti, in particolare nel caso dei gas ad effetto serra, per cui tutta la Terra viene condizionata, qualunque sia il luogo di emissione. Per questa ragione noi non possiamo che cercare un accordo globale, per una gestione condivisa del problema.
D) Qualche settimana fa i ministri dell’ambiente di Francia, Germania e Inghilterra hanno firmato un appello congiunto sul Financial Times affinché l’Europa abbia il coraggio di innalzare (anche unilateralmente) il target di riduzione delle emissioni C02 al 30%, convinti che questa sfida possa costituire anche una grande opportunità di business per i paesi europei. Pensa si tratti solamente di propaganda o di sostanza nelle intenzioni? Perché l’Italia non condivide questa visione e non la considera un’opportunità invece che un mero costo per le aziende?
Rossi) Mi sembra il solito vecchio modo di sfruttare la “vetrina ambiente” per fare proclami di facile presa sui cittadini. Anch’io vorrei vivere in una casetta di legno nel bosco svedese, ma chi mi dà da mangiare? I tre ministri hanno fatto propaganda, ma poi il Consiglio, quando si è espresso contro il testo della direttiva IPPC, l’ha fatto anche a nome della Francia. Che voleva giocare, con gli altri, a fare i primi della classe e proporre qualcosa di irrealizzabile per poi dire che non si è potuto fare per colpa degli americani e dei cinesi. Gli unici che forse potrebbero essere in grado di reggere una tale riduzione delle emissioni sono Germania e Inghilterra, che hanno pesantemente investito nel passato. Anche la Francia però sembra avere degli interessi in questa direzione: intanto come mossa per ridare lustro al governo Sarkozy, poi per favorire l’esportazione del nucleare e infine perché, come ex-potenza coloniale avrebbe una maggiore facilità a delocalizzare nei paesi emergenti con maggiori garanzie e vantaggi rispetto all’Italia.
Prodi) In realtà 20 o 30%, secondo me, è irrilevante – è già insufficiente il 30! Il punto è che noi dobbiamo veramente convincerci della necessità di conversione dai combustibili fossili alle rinnovabili, che è un vantaggio. Prima lo facciamo e meno ci costa, ma soprattutto prima lo facciamo e meno dipendiamo da altri fornitori di energia. Sono investimenti da fare proprio perché ci troviamo in un momento di crisi economica. Abbiamo bisogno di un forte programma keynesiano perché altrimenti entreremo, con le misure solo di bilancio, in una fase di stagnazione, come quella che il Giappone sperimenta da almeno 20 anni.
Andrea Gandiglio