La ricetta I-Com per far decollare il fotovoltaico in Italia
Nel corso del convegno ‘Sole a levante o a ponente? Le prospettive di sviluppo del settore fotovoltaico in Italia alla prova della politica’, tenutosi a Roma lo scorso 21 gennaio, è stata presentata la ricerca dell’Istituto per la Competitività (I-Com) sul potenziale contributo del fotovoltaico all’economia italiana.
Punto di partenza dello studio è l’amara presa di coscienza che il nostro Paese, nonostante le ottime potenzialità, registra un netto ritardo nel solare rispetto ad altre nazioni. Un esempio per tutti: la ben meno soleggiata Germania, ad oggi, può vantare 6 GW di potenza installata contro i soli 1000 MW della nostra penisola.
Non è tuttavia troppo tardi per recuperare il terreno perduto.
In base all’analisi quantitativa effettuata da I-com, installando una potenza di 9 GW di impianti fotovoltaici entro il 2020 e ipotizzando una produzione annuale. made-in-Italy equivalente a poco più di 3000 MW, il settore potrebbe generare una nuova occupazione pari a 23.000 unità di lavoro aggiuntive (in media annuale) per la fase di costruzione degli impianti e 22.000 ulteriori posti per la fase di gestione.
Se si considera che la spesa per la realizzazione e la gestione di un simile obiettivo potrebbe toccare i 29 miliardi di euro (con un impatto complessivo sul sistema economico di circa 65 miliardi), risulta evidente che non si tratta di investimenti di poco conto. Eppure, secondo la ricerca, grazie a un apporto significativo delle esportazioni e a una crescita a due cifre del mercato mondiale, si potrebbe ottenere un valore aggiunto pari a 110 miliardi di euro e un’occupazione di circa 210.000 unità di lavoro nel periodo 2010-2020.
Tutt’altro che trascurabili sarebbero pure i benefici per le casse dello Stato (si veda il grafico). Nello scenario dei 9 GW al 2020, le entrate fiscali per il periodo di riferimento, sfiorerebbero i 6,6 miliardi di euro (per il 36,4% derivanti da redditi da lavoro, per il 31% da redditi d’impresa e per il resto da imposte prevalentemente indirette).
Da non dimenticare poi l’evidente impatto positivo per l’ambiente, dal momento che un sistema a regime permetterebbe una riduzione delle emissioni di circa 6 milioni di tonnellate annue e, di conseguenza, un minor ricorso all’uso di fonti fossili (800 mila tonnellate di carbone, 1,6 miliardi di metri cubi di gas e 200 mila tonnellate di prodotti petroliferi medi annui in meno, rispetto alle quantità richieste oggi dal nostro Paese).
Per passare dalle ipotesi numeriche alla realtà, ricorda I-Com, occorre non dimenticare l’obiettivo ultimo, ovvero la creazione di una stabile ed efficiente filiera produttiva. La forte discontinuità di policy da parte dell’Italia, infatti, continua ad ostacolare un settore che potrebbe offrire ampi margini di crescita.
L’imperativo che emerge dalla ricerca è quindi l’assoluta necessità di prevedere un orizzonte temporale di incentivazione sufficientemente lungo da ridurre l’incertezza degli investitori: diminuire drasticamente la tariffa incentivante per il 2011, infatti, rischierebbe di comprimere sensibilmente i rendimenti industriali degli impianti. Inoltre, molti progetti risulterebbero non finanziabili, soprattutto in un momento di crisi in cui i requisiti richiesti dalle banche sono divenuti più stringenti.
Secondo i ricercatori I-com, occorre infine semplificare l’architettura stessa degli incentivi (sull’esempio della Francia) prevedendo differenziazioni della tariffa non in base alla classe dimensionale dell’impianto, ma solo in base all’integrazione. Se infatti sembrano esserci validi elementi a favore dell’integrazione architettonica degli impianti, non sembra sussistere un’altrettanto valida giustificazione a supporto di una maggiore incentivazione degli impianti più piccoli rispetto a quelli più grandi, che sono peraltro sottoposti a misure di valutazione più rigorose e sono decisivi per raggiungere i target UE al 2020.