Un Mea culpa per il degrado degli ecosistemi
Su gentile concessione dell’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano, ripubblichiamo l’articolo di Stefano Pogutz, Direttore del MEMAE – Master in Economia e Management dell’Ambiente e dell’Energia, e di Monika Winn, Associate Professor di Business Strategy alla University of Victoria (Canada), originariamente pubblicato su Via Sarfatti 25, Il Quotidiano della Bocconi.
Quando si parla di ambiente e di sviluppo sostenibile, l’effetto serra e i cambiamenti climatici dominano la scena mediatica. Un altro tema sta però acquisendo rilevanza nell’agenda politica internazionale: il crescente degrado degli ecosistemi e della loro capacità di generare servizi fondamentali per la vita dell’uomo.
La nozione di ecosistema rappresenta uno dei concetti più importanti in ambito scientifico. Può essere piccolo come uno stagno, o grande come un’area boschiva, una regione o l’intera biosfera. Gli ecosistemi svolgono una serie di funzioni che contribuiscono in maniera decisiva al benessere e alla salute dell’uomo, sia in modo diretto che indiretto.
Queste funzioni generano servizi che non vengono pienamente catturati dai meccanismi di mercato. Di conseguenza, per anni la protezione degli ecosistemi è stata trascurata dalle scelte dei policy maker e delle imprese. Una prima stima prudenziale del valore degli eco-servizi venne effettuata solo nel 1997, quantificando in 33.000 miliardi di dollari il valore medio annuo prodotto dagli ecosistemi del pianeta.
Nel 2000 le Nazioni Unite avviarono il primo monumentale programma di ricerca per censire lo stato di salute dei nostri ecosistemi. Il progetto coinvolse 1.360 scienziati. Dal risultato, pubblicato nel 2005 con il nome di Millennium Ecosystem Assessment – Mea, si evince che i 2/3 degli ecosistemi risultano danneggiati o seriamente compromessi.
Anche il mondo delle imprese ha sottovalutato la criticità dei servizi generati dagli ecosistemi. Se da un lato, infatti, l’attività di trasformazione ne modifica gli equilibri e la capacità di generare servizi, dall’altro intere industrie dipendono dai benefici generati dal capitale naturale. Una degradazione di quest’ultimo è in grado di alterare la redditività dell’impresa fino a compromettere la sua capacità di sopravvivenza. Per esempio, l’impollinazione, la disponibilità di acqua non contaminata e il mantenimento della fertilità dei terreni condizionano intere filiere agro-alimentari quali la produzione di tè, caffè, vino, olio d’oliva. Altre attività economiche, invece, sono condizionate indirettamente dal degrado degli ecosistemi. Il turismo dipende dalla regolazione climatica globale, regionale e locale: la variazione delle precipitazioni come effetto congiunto di deforestazione e diffusione dei gas serra aumenta in alcune zone l’esposizione ai rischi naturali, in altre modifica la durata delle stagioni (ad esempio, riducendo la stagione sciistica in diverse località alpine) con effetti sulla redditività delle imprese che vi operano.
Come esaminato in un recente rapporto del World Resource Institute (2008), realizzato con la collaborazione del World Business Council for Sustainable Development, la relazione tra impresa ed ecosistemi è complessa e di difficile valutazione. I rischi possono essere molteplici e possono condizionare l’attività aziendale a più livelli: dall’improvvisa indisponibilità di una risorsa critica per l’impresa, come effetto di una degradazione irreversibile degli ecosistemi che la producono, che condiziona l’attività operativa aziendale e la qualità del prodotto finale, a nuove norme a protezione degli ecosistemi, che regolamentano il servizio ambientale di cui l’impresa beneficia, riducendo la disponibilità della risorsa, oppure aumentando il costo di utilizzo.
La consapevolezza di dipendere da servizi che rischiano di essere irrimediabilmente compromessi si sta dunque diffondendo nella business community. Le risposte sono molteplici e vanno dalla creazione di certificazioni ambientali per una gestione sostenibile degli eco-servizi (ad esempio, il Forest Stewardship Council per la gestione sostenibile delle foreste), allo sviluppo di nuove strategie attive di conservazione del capitale naturale e di recupero di zone contaminate.
Si tratta di una nuova lettura del rapporto tra impresa e ambiente naturale, che dovrebbe portare a una maggiore attenzione alla protezione degli ecosistemi. Le imprese devono imparare a tutelare l’habitat da cui dipendono quando è in gioco la loro sostenibilità nel tempo.
Stefano Pogutz e Monika Winn