Jean-Louis Aillon: ragazzi, riprendetevi il futuro attraverso la decrescita
“Gli psicanalisti considerano loro compito riadattare i pazienti alla società, invece di cambiare la società per adattarla ai bisogni dell’umanità in generale”. La saggia osservazione che Tiziano Terzani raccolse durante uno dei suoi viaggi in Tibet, parlando con un anziano eremita, è uno dei principi che guida l’attività di Jean-Louis Aillon, giovane medico specializzato in psicoterapia adleriana, vicepresidente del Movimento per la Decrescita Felice e referente del gruppo tematico “Decrescita e Salute”. Avvicinatosi al movimento di Maurizio Pallante durante gli anni universitari, Aillon, a 28 anni, ha scritto “La decrescita, i giovani e l’utopia”, originale analisi psico-sociale del disagio giovanile attraverso la lente della decrescita, alla ricerca di un altro futuro possibile: sostenibile, equo, consapevole. E con ancora un po’ di spazio per le utopie.
D) Jean-Louis, il libro che hai scritto è basato – oltre che sui tuoi studi e sulla tua esperienza personale – su una significativa esperienza sul campo derivata da una serie di incontri organizzati per studenti di scuole superiori. Di cosa si tratta?
R) Gli incontri sono nati nell’ambito del Circolo per la Decrescita Felice di Torino, di cui faccio parte con molti altri giovani attivisti. Gli studenti di vari istituti superiori, durante le autogestioni, hanno cominciato a chiederci degli interventi di introduzione ai principi della decrescita: si passava da situazioni più piccole e raccolte, come incontri in classe, a vere e proprie conferenze, come quelle tenute per il Liceo Gioberti davanti a 300 studenti per volta. Partendo da qui, insieme a un’amica psicologa, Francesca Gardiol, abbiamo poi cominciato a proporre dei questionari ai ragazzi.
D) “Il futuro da promessa è diventato minaccia”, scrivi citando il lavoro di Miguel Benasayag e Gerard Schmit. È questo ciò che è emerso dagli incontri con i ragazzi delle scuole?
R) Questo aspetto è stato senz’altro quello che più ci ha colpiti. Questa immagine minacciosa del futuro un po’ l’ho vissuta anch’io, ma francamente non ricordo, nella mia adolescenza, di aver mai avuto una visione così grigia dell’avvenire. Alla domanda “Come immagini il futuro?” abbiamo ricevuto risposte come: “Non lo immagino”, “Lascio tutto al destino”, “Non riesco a immaginare il futuro, o meglio non voglio, credo che in questo paese non ci sia spazio per i nostri sogni”, “Credo che la speranza serva a poco, nel mondo di oggi bisogna guardare la realtà”… C’è una rassegnazione, un pessimismo, che a tratti diventa persino cinismo, quasi tipico di un cinquantenne disilluso, e non certo di un ragazzo di sedici anni con tutta la vita davanti.
D) Quali sono i motivi di questa prematura disillusione?
R) Credo che la nostra società senta di essere come un treno scagliato contro un muro. Quel muro sono i limiti dello sviluppo, sia economici che ambientali: c’è il sentore che non potrà esserci futuro se si va avanti così, e che l’hybris di cui ci siamo resi colpevoli condurrà a una nemesi. Questo pessimismo di cui è intrisa oggi la società è vissuto dai giovani in prima persona, perché loro sono i soggetti di questo futuro. Un futuro che ci viene presentato come non modificabile, come un sistema “naturale”, l’unico mondo possibile. La crisi è vissuta come pioggia che cade dal cielo, inevitabile, e allora non resta altro che rassegnarsi e al massimo aprire l’ombrello. È davvero uno scenario angosciante se si guarda con questi occhi.
D) Nei ragazzi c’è consapevolezza di queste motivazioni? Dei limiti dello sviluppo, della crisi ambientale che stiamo affrontando?
R) Non proprio… Per loro il futuro è, al momento, iscriversi o no all’università, trovare o non trovare lavoro ecc. La consapevolezza del malessere più generale della nostra società è, come del resto nella maggior parte della gente, più che altro subconscia, è un sentire, non è proprio una cognizione ben strutturata. Però è lì, pronta a venire a galla, e quello che noi cerchiamo di fare quando andiamo a parlare di questi temi è farla affiorare, spiegando perché il nostro sistema non è sostenibile. Una volta comprese le cause di questa insostenibilità, allora si passa da spettatori, da ingranaggi di una “megamacchina”, a protagonisti: possiamo capire quali rotelle non funzionano e attivarci per riappropriarci del nostro futuro.
D) Questi incontri hanno poi prodotto dei risultati concreti? Ci sono stati ragazzi che si sono avvicinati al Movimento della Decrescita o magari si sono impegnati in qualche iniziativa?
R) Sugli adolescenti un attivismo vero e proprio è difficile da suscitare, però l’interesse da parte loro è stato sempre molto vivo. E comunque, essendo la decrescita una cosa che parte da un cambiamento personale, non c’è bisogno di andare in piazza con una bandiera. Basta ad esempio andare a scuola in bicicletta o bere l’acqua dalla borraccia invece che comprare la bottiglia di plastica, convincere i genitori a comparare determinati prodotti o a fare la spesa attraverso un GAS, regalare loro un libro sull’argomento… Io credo che molti di questi ragazzi abbiano intrapreso se non una strada, almeno un sentiero in questa direzione.
D) Nel libro insisti molto sul diverso approccio necessario per fare arrivare il messaggio della decrescita a un adulto o a un ragazzo…
R) Un fattore importantissimo per veicolare il messaggio della decrescita e della sostenibilità è il disagio del vivere in questo sistema, disagio che per adulti e giovani si manifesta in modo completamente diverso. Gli adulti vivono in una macchina che impone loro di correre, di lavorare, di comprare: appena rallentano un attimo e riescono a sperimentare un modello di vita alternativo, capiscono di essere più felici. I giovani invece non sono ancora intrappolati nel sistema lavoro e si trovano in una specie di limbo: vivono un’enorme libertà, che però cela un vuoto di senso. Il futuro che non c’è, il passato che non piace, portano a vivere in un eterno presente, in cui è difficile costruire una propria identità. Il disagio ha quindi a che vedere con il bisogno di omologazione e il senso di inadeguatezza rispetto alle aspettative che la società ci impone. Qui la decrescita e il discorso sulla sostenibilità possono far presa e offrire delle vie di uscita.
D) Hai scritto: “La decrescita è una questione di libertà”. Cosa significa?
R) A volte sembra che ci sia una gara a chi è più sostenibile… Certo si può fare una graduatoria: essere fruttariano o crudista è ovviamente più decrescente che mangiare la carne o guidare il SUV. Ma non è detto che tutti dobbiamo diventare così. La decrescita è una questione di libertà nel senso che, come nella psicoterapia, è un percorso che ognuno fa alla ricerca di altre strade. Noi affrontiamo la vita tendenzialmente solo in una maniera, mentre parlando con un analista vengono sempre fuori delle strade alternative, che certo non si devono imboccare per forza: sta a noi la scelta, che però a questo punto sarà una scelta consapevole. Per la decrescita è la stessa cosa: è un cambiamento che parte da noi stessi, dalla consapevolezza del nostro essere e del nostro rapporto con la natura e con gli altri, e che per ognuno ha un esito diverso.
Maurizio Pallante dice che la decrescita è “meno e meglio”. Per me “meno e meglio” è andare a lavoro in bici, mentre un’altra persona magari non può fare a meno di usare l’automobile. Ma quella stessa persona potrebbe essere vegetariana, mentre io la carne ogni tanto la mangio. Non siamo incoerenti, è solo che ognuno percorre questa strada e la declina nella sua vita in modo diverso, sia rispetto agli altri, sia nei vari periodi della sua stessa esistenza.
D) Nel libro citi Erich Fromm: “L’unica cosa che ci può salvare è un cambiamento del cuore”…
R) Sì, infatti non basta cambiare la testa, bisogna “sentirlo” il cambiamento. “Cambiamento del cuore” vuol dire decolonizzazione dell’immaginario rispetto ai miti della crescita economica, con tutti i suoi disvalori che ci sono stati propinati. Fromm dice: ci troviamo ormai di fronte a una sfida in cui è a rischio la sopravvivenza della specie umana, riusciremo ad affrontarla solo se avremo il coraggio di cambiare radicalmente il nostro cuore. Non dobbiamo però illuderci che possa succedere così, da un giorno all’altro; accadrà solo quando ci saranno degli eventi tali da scuotere l’umanità e dare a tutti la possibilità e il coraggio del cambiamento. In questo senso la crisi è un’avvisaglia di quel futuro che spaventa i giovani e che è sentito come minaccia, ma che è anche una grande scommessa sulla nostra civiltà. Si dovrà virare in un senso o nell’altro: sarà qualcosa di molto emozionante, epico. Chi adesso ha sedici anni potrà vivere in prima persona questa transizione ed esserne protagonista, non passivamente, ma in modo attivo.
D) Quindi il futuro ridiventa promessa?
R) Non promessa, perché significherebbe tornare a nascondersi per non vedere i problemi che abbiamo. Direi piuttosto speranza: speranza nel rincorrere un’utopia “relativa”, non dogmatica, che ci dia slancio per affrontare la crisi del sistema, ma sempre con la consapevolezza della realtà. Senza foderarsi gli occhi, insomma.
Giorgia Marino