In viaggio fra le terrazze di riso dello Yunnan, fuori dalle vie di massa
- “Ragazzi, fra un paio di curve ci sarà un posto di blocco: quando ve lo dico, sdraiatevi sotto i sedili”. A sentirsi rivolgere una frase del genere, nel bel mezzo di un viaggio fra risaie e boschi di bambù, non si può fare a meno di sentirsi come Indiana Jones. Balbettiamo una flebile protesta, ma poi, un po’ spiazzati e un po’ preoccupati (e incontestabilmente divertiti), obbediamo. Non siamo pericolosi dissidenti, né stiamo trasportando merci di contrabbando, ma Jacky Wen ha le sue buone ragioni per farci nascondere.
Guida turistica “alternativa” e intraprendente proprietario di una guesthouse nello Yunnan meridionale, Jacky sta difendendo la sua visione “illuminata” di turismo in una delle regioni naturalisticamente più ricche e in gran parte ancora incontaminate della Cina. Fermarsi al posto di blocco significherebbe pagare un biglietto cumulativo per una serie di punti panoramici – ovviamente muniti di terrazze, bar e ampia scelta di souvenir – allestiti dal governo locale e dai tour operator “ufficiali” a beneficio del galoppante turismo di massa cinese. Ma Jacky, che qui ci è nato e cresciuto, ha un’idea un po’ diversa su cosa significhi valorizzare la sua terra.
Evitati controllo e biglietto, riemergiamo dai nostri nascondigli e finalmente ci si para davanti agli occhi ciò per cui siamo venuti fin quaggiù, nella propaggine sud-occidentale della Repubblica Popolare. Le risaie a terrazza di Yuanyang sono uno di quei casi in cui anche la Lonely Planet diventa lirica, infiorando le poche righe di spiegazione con “albe e tramonti indimenticabili”, romantici oceani di nebbia e “colori usciti dalla tavolozza di un pittore”. La verità è che è davvero difficile rendere il senso di stupore quasi reverenziale che ci invade alla vista di quella che è, a tutti gli effetti, un’immensa e secolare (identica da 1.300 anni!) opera di sinergia fra uomo e natura. Parlare di sublime non sarebbe corretto, forse è vero l’esatto contrario: non è il terrore romantico per l’insuperabile eterna vastità della natura che ci sorprende, quanto piuttosto una sensazione di armonia e confortante continuità, il sentirsi, come specie umana, finalmente parte del paesaggio e non suoi antagonisti, l’idea di poter cavalcare il tempo a braccetto con il cosmo.
La pausa filosofica dev’essere frutto di una distorsione temporale, perché non passano due secondi che scatta la fregola di Instagram. Jacky lo sa. Con un sorrisetto paziente, accosta la macchina: “Ok, ci fermiamo un attimo prima di arrivare in paese. Prendetevi dieci minuti per fare le foto”. In fondo, siamo umani e siamo turisti: se si usasse ancora la pellicola, quel breve assaggio di terrazze di riso, con l’acqua che riflette la luce chiara di un tardo pomeriggio invernale e i bordi sinuosi che seguono la linea della montagna, allargandosi mentre declinano a valle, meriterebbe un intero rullino.
Dal 2013 tutta l’area delle risaie a terrazza di Yuanyang, che si estende sulle pendici dei monti Ailao fino alle sponde del grande Fiume Rosso, il placido Honghe dalle acque argillose, è stata dichiarata patrimonio dell’Unesco. E non solo per l’incontestabile bellezza del paesaggio. I distretti di Bada, Duoyishu e Laohuzui sono infatti territori Hani, una delle ventisei minoranze etniche concentrate nello Yunnan, che rendono la provincia un unicum in tutta la Cina. Insediatosi nella zona oltre 1300 anni fa, il popolo Hani ha sfruttato il clima e la conformazione del territorio per creare un complesso sistema di “agricoltura integrata” che ha davvero pochi eguali al mondo. I canali irrigui scavati nella terra portano l’acqua dalla cima boscosa delle montagne alle terrazze di riso, che raggiungono in alcuni punti addirittura i 3.000 piani. Durante l’anno gli animali da allevamento danno il loro contributo: bufali e mucche preparano i campi per la semina, oche, galline e maiali concimano le piantine di riso, pesci, anguille e lumache eliminano gli insetti nocivi. Basato sul rapporto simbiotico fra piante, animali e uomo, il sistema Hani si auto-riproduce di stagione in stagione, forte anche di una profonda tradizione socio-culturale di sacralità della natura. “Il sistema di gestione resiliente del territorio delle terrazze di riso – si legge nella relazione dell’Unesco – testimonia una straordinaria armonia fra la popolazione e l’ambiente, sia dal punto di vista ecologico che da quello estetico; un’armonia basata su strutture sociali e religiose eccezionalmente durature”.
Insomma, sembrerebbe che l’omologazione portata dalla Rivoluzione Culturale di Mao e poi dalla politica di crescita forzata di Deng Xiaoping abbia risparmiato questo lembo periferico di Cina. Eppure… Salendo in auto verso il villaggio di Jacky, la meraviglia che ci aveva colto alla vista delle terrazze è costantemente interrotta da una sensazione di disappunto e delusione: non c’è armonia che tenga, gli onnipresenti cantieri sono arrivati anche quaggiù, a invadere il paesaggio come in ogni singola località della Cina, per quanto sperduta, isolata o rustica sia. Certo, tra le montagne non arrivano speculatori edilizi a costruire grattacieli di trenta piani in quindici giorni, e nemmeno il governo a tirar su squallidi palazzi-alveare per alloggiare masse di operai. Sono gli stessi Hani a buttar giù e ricostruire le loro case di argilla dal tipico tetto a fungo, per farsi abitazioni di mattoni e cemento, dall’aria spesso un po’ pacchiana ma sicuramente più calde e asciutte. I concetti di ristrutturazione e recupero sono ben di là da venire, così come la diffusione di una cultura della sostenibilità ambientale è una sfida ancora tutta da affrontare; ma la corsa al benessere economico, quello sì è un messaggio giunto ormai da tempo, forte e chiaro.
E insieme al cemento, dicevamo, arriva anche il turismo di massa. Non quello occidentale, che qui – a differenza di altri paesi asiatici – è scoraggiato dalla scarsa diffusione dell’inglese, ma quello autoctono. Un turismo ancora acerbo, “alle prime armi”, specchio dell’ingenua e totalmente acritica frenesia del consumo che ha colto la società cinese negli ultimi anni. Passando accanto ai famigerati “punti panoramici” tanto odiati dal nostro Jacky, sembra di vedere i proverbiali turisti giapponesi degli anni ’80: arrivano all’alba o al tramonto, seguendo rigorosamente le indicazioni da manuale circa il momento giusto e il posto giusto per lo scatto perfetto; sbarcano dai pulmini dei tour operator o dai suv privati, con al collo – t-u-t-t-i – macchine fotografiche con teleobiettivi da far invidia a qualsiasi professionista del settore; si appostano, puntano i cannoni e scattano, tutti con la stessa luce e le stesse inquadrature, decine di fotografie presumibilmente uguali una all’altra; e poi via, a comprare paccottiglia, bere e mangiare snack nei bar dei punti panoramici.
È comprensibile che chi, per indole o per ventura, sia riuscito a sviluppare un po’ di senso critico e consapevolezza, cerchi di opporsi come può a un tale squallore. Ora il nostro arrivo da “clandestini”, sottratti al fatale meccanismo dei punti panoramici, ci appare sotto tutt’altra luce.
La sera, sistemati nella guesthouse del piccolo villaggio di Puogao Laozhai, frazione di Duoyishu, ci scaldiamo davanti al braciere in attesa della cena, mentre Jacky ci disegna la sua mappa alternativa per un trekking a piedi fra le terrazze di riso, evitando accuratamente tutte le postazioni panoramiche “comandate”. “C’è stato un periodo della mia vita in cui mi ero messo in testa di insegnare ai giovani della mia terra a diventare guide per il trekking – racconta – Avevo istituito un corso a Kunming (la capitale dello Yunnan ndr), ma poi ho dovuto rinunciare. I ragazzi abbandonavano, gli sembrava tutto una gran perdita di tempo. Mi chiedevano stupiti: perché mai un turista dovrebbe preferire camminare, quando può comodamente andare in auto nei luoghi che vuole fotografare?”. Non era svogliatezza o scarsa intraprendenza, ma solo pragmatismo: è questa, almeno per ora, la via cinese all’ecoturismo, e chi vuol guadagnare si adegua.
Tuttavia, malgrado il verbo adeguarsi – volenti o nolenti – in Cina vada per la maggiore, Jacky è uno di quei rari e preziosissimi casi di allergia all’omologazione, un germe di apertura mentale che fa di tutto per diventare contagioso. Con il suo perfetto inglese (“l’unica cosa che ho davvero studiato nella mia vita”) è riuscito a girare il mondo, è diventato assistente del celebre fotografo francese Olivier Follmi, è stato in Europa ed ha assimilato concetti come recupero della tradizione, turismo ecosostenibile, difesa della cultura locale. Tornato a casa, con ostinazione e un incrollabile sorriso, si è rimesso al lavoro. Ora la sua guesthouse, meta privilegiata dei backpackers europei che visitano le terrazze, è una specie di centro culturale, che dà lavoro a molte donne del paese, promuove la cultura locale con la vendita di manufatti artigianali e abiti tradizionali fatti a mano, e naturalmente fornisce indicazioni e organizza tour “alternativi” della zona.
Con la nostra mappa scarabocchiata su un pezzo di carta, il mattino del giorno dopo ci siamo dunque messi in marcia. In otto ore di cammino abbiamo visto l’alba sulle risaie, attraversato tre villaggi, sbirciato nelle case semivuote dei contadini, fra le macerie dei cantieri e attraverso assurdi portoni kitsch con capitelli dorici; abbiamo camminato in equilibrio sui cordoli di fango che delimitano i campi di riso e fra i letamai a cielo aperto, visto grossi maiali neri sdraiati a prendere il sole come cagnoloni in mezzo alle case, incontrato donne vestite in abiti tradizionali con elaborati copricapi, di ritorno da chissà quale celebrazione, e altre, sempre in abiti tipici, impegnate a trasportare alte file di mattoni sulla schiena; abbiamo incrociato uomini a lavoro nei campi, piccoli bufali incrostati di terra e pochi altri turisti. E poi sì, al tramonto, sfiniti e con i piedi doloranti, ci siamo arresi a un punto panoramico. E mentre il sole calava dietro le montagne inondando di riflessi le terrazze allagate, insieme ad altri venti fotografi provetti che man mano scendevano dalle automobili accostate al ciglio della strada, abbiamo scattato le nostre quaranta foto. Identiche, probabilmente, a quelle degli altri, ma almeno sudate, vissute e percorse.
Giorgia Marino