5 giugno 2010. Una (scomoda) riflessione sull’ambiente
5 giugno 2010. Giornata mondiale dell’ambiente e pausa di riflessione per valutare la salute del Pianeta. L’Onu suggerisce una serie di piccole-grandi azioni virtuose per mettere in sicurezza il corpaccione malato della Terra. Alcune perfino banali (risparmiare acqua per usi domestici), altre più “strategiche” (riciclo di materiali, car pooling o acquisto di auto ibride). Tutto molto giusto, tutto molto condivisibile. Ma un medico pietoso, si sa, non aiuta a guarire il malato. Così, meglio non ignorare i punti deboli di alcune terapie.
Esempio illuminante: le auto elettriche. Secondo autorevoli previsioni dovrebbero costituire un’alternativa tecnologicamente matura ai veicoli a benzina entro il 2020. Eppure il litio – elemento indispensabile alle batterie di vetture elettriche e ibride – in sette anni è passato da 350 agli attuali 3000 dollari la tonnellata. Al momento non vi è carenza evidente di questa risorsa, ma, per il Professor Ugo Bardi, presidente dell’Aspo (Associazione per lo Studio del Picco del Petrolio), “se la domanda dovesse aumentare molto rapidamente sarebbe assai difficile incrementare la produzione”.
Quanto all’avvento della mitica auto a idrogeno sono in pochi ormai a scommettervi sopra qualche centesimo. Ovviamente è impossibile prevedere con esattezza le tendenze del mercato da qui a dieci anni. Fare previsioni è d’altra parte sempre piuttosto rischioso e solo chi le evita può ritenersi al sicuro da errori. Le statistiche vanno poi maneggiate con molta cura perché non di rado rappresentano la “volontà di potenza” del ricercatore che le ha prodotte. E che, spesso, è l’unico a prenderle veramente sul serio.
Tuttavia le previsioni serie non sono mai un azzardo, ma ragionate analisi sui fatti. In questa prospettiva la riflessione sul litio non sembra allora un esercizio di stile ma un salutare bagno di realismo: primum vivere deinde philosophari. Occorre certo ripensare il modello di sviluppo occidentale fin qui raggiunto e aspirare a un futuro energetico meno dipendente dal petrolio, ma non possiamo pensare che basti enunciare questa sacrosanta verità perché essa accada. Il punto è che la realtà se ne infischia delle teorie, avrebbe detto Giuseppe Prezzolini. Insomma, tra il dirsi ottimisti sulle sorti della green revolution e il manifestarsi delle sue concrete opportunità c’è di mezzo ancora un mare di petrolio.
In termini di riserve, più o meno qualche migliaio di miliardi di barili. Lungi dall’esaurirsi, il greggio sarà nostro compagno di viaggio ancora per parecchio tempo. Settanta anni secondo le previsioni di Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni. Sulla prossima fine dell’oro nero sono state spese migliaia di parole. La tesi, controversa, è smentita da molti analisti, da nuovi ritrovamenti di giacimenti offshore o riserve custodite a enormi profondità. Qualche dato. Nel 2008 l’Arabia Saudita manteneva saldamente la posizione di primo produttore al mondo di petrolio con circa dieci milioni e mezzo di barili al giorno. La Russia era seconda con quasi dieci milioni, seguivano Stati Uniti (sette milioni e mezzo), Iran (circa quattro milioni e trecentomila), poi Cina, Canada, Messico, Emirati Arabi Uniti, Venezuela e Kuwait.
Nel 2008 questi dieci paesi avevano prodotto cinquanta milioni e seicentomila barili al giorno. In termini di riserve, ai primi quattro posti si trovavano Arabia Saudita (22,9%), Iran (11,9%), Iraq (9,9%) e Kuwait (8,9%) con oltre 624 miliardi di barili. I dieci paesi leader (ai quattro già citati vanno aggiunti Emirati, Venezuela, Russia, Libia, Nigeria, Kazakhstan) detenevano circa mille miliardi di barili di riserve. Alcuni dei maggiori depositi di petrolio o gas recentemente scoperti si trovano in Brasile, nel Golfo del Messico e nella provincia canadese dell’Alberta. Tutte regioni, fortunatamente, a basso rischio geopolitico. Solo l’Alberta avrebbe riserve economicamente recuperabili da sabbie bituminose per circa 170 miliardi di barili. Si tratta di un quantitativo secondo solo a quello dell’Arabia Saudita. Senza contare i giacimenti del cosiddetto tight gas intrappolato sotto i rilievi delle Montagne Rocciose, dell’Alberta o del British Columbia (varierebbero tra i quaranta e i settanta trilioni americani di piedi cubici). Che con lo shale gas (gas non convenzionale presente, a un chilometro e mezzo di profondità, in rocce scistose di molti stati americani) e il coal bed methane (carbone) forma circa il 60 per cento delle riserve onshore tecnicamente recuperabili tra Stati Uniti e Canada.
In teoria il gas “non convenzionale” rappresenta una buona soluzione per risolvere la dipendenza da petrolio da aree geopoliticamente instabili e per ridurre le emissioni nocive. Ma secondo molti ambientalisti i processi di estrazione e di lavorazione del gas causerebbero enorme dispersione di acqua, l’inquinamento delle falde e vari problemi agli ecosistemi. I grandi progetti tuttavia si rincorrono senza sosta: una joint venture da 2,25 miliardi di dollari fra Chesapeake Energy e Total e l’acquisizione di XTO Energy (specializzata nell’estrazione di gas da scisto) da parte di Exxon Mobil, a siglare il più rilevante accordo da quattro anni a questa parte nel settore oil & gas. Le principali major si disputano i giacimenti a suon di miliardi di dollari.
Di fatto, la tecnologia non è ancora matura e fino ad oggi il governo e il Congresso statunitense non si sono mostrati molto propensi ad allargare i cordoni della borsa per incentivarne la ricerca e lo sviluppo. Forse per evitare di essere “accusati” di favorire i grandi player del settore. Eppure per Tony Hayward, amministratore delegato di BP (il gruppo nell’occhio del ciclone per la marea nera nel Golfo del Messico), il gas non convenzionale “probabilmente cambierà il panorama energetico statunitense dei prossimi 100 anni”. Un panorama che, fino a poco tempo fa, si sarebbe dovuto trasformare solo grazie alla grande rivoluzione verde promessa dal presidente Obama. Una rivoluzione che, si diceva allora, sarebbe stata in grado di modificare radicalmente il sistema degli approvvigionamenti energetici statunitensi e, considerato il ruolo guida che gli USA rivestono a livello mondiale, anche gli equilibri geopolitici del Pianeta.
E su tutto un piano che prevede, entro il 2050, un gigantesco sistema di pannelli fotovoltaici e solare termico e un’infrastruttura a corrente continua, in grado di fornire il 69 per cento dell’elettricità degli Stati Uniti e il 35 per cento dell’energia totale (inclusi i trasporti). Altri tempi, altre speranze, altri progetti. La trasformazione energetica degli Stati Uniti è un business troppo allettante perché si misurino con attenzione tutte le conseguenze sull’opinione pubblica (sempre più confusa) dell’“effetto annuncio”. Così, pur di accedere ai preziosissimi fondi e incentivi governativi, tutti i soggetti interessati (grandi player o istituti di ricerca) giocano sul tavolo “verde” dell’ambiente e alzano la posta delle soluzioni miracolistiche.
Nessuno, naturalmente, nega che una quota parte del prossimo sviluppo mondiale debba venire dalle energie rinnovabili. Il percorso sembra tracciato. Almeno dal punto di vista politico se non da quello tecnologico. Ma in un’epoca di sconvolgimenti economici, sociali e finanziari gli scenari energetici globali sono destinati a cambiare molto in fretta. Un anno vale per cinque e del domani non vi è più certezza. Serve afferrare il giorno e propagandare speranze per i tempi a venire. Quel che è sicuro oggi non lo sarà più in futuro e quello che è negato ora tornerà a essere di moda domani. E tuttavia nulla sarà più come prima, come prima avevamo immaginato.
Accordi, numeri, miliardi che demoliscono le certezze di chi immagina il futuro dell’energia alimentato unicamente da sole, vento o acqua. Le intese nel settore oil & gas si succedono senza sosta. Con i big italiani che fanno la loro parte. Si veda la recente joint venture ad Abu Dhabi fra Tecnimont e Japan Gas Corporation, per un appalto da 4,7 miliardi di dollari in uno dei più grandi programmi di sviluppo gas al mondo. Insomma, i progetti per disputarsi i giacimenti non si fermano e il petrolio o il gas non scompariranno dall’orizzonte energetico in breve tempo. Certo, in molti casi si tratta di riserve più complesse e più costose da estrarre o da lavorare. Il processo di produzione delle sabbie bituminose è ad esempio molto criticato per gli effetti negativi che ha sull’ambiente. E non vi è dubbio che anche questi problemi contribuiranno a stimolare investimenti in nuove fonti energetiche pulite. Tuttavia continueremo a convivere con l’oro nero per qualche decennio ancora, nonostante la difficoltà di soddisfare la domanda in continuo aumento. E, comunque, i sistemi dei trasporti e (soprattutto per paesi come l’Italia) quello industriale sono tuttora fortemente vincolati alle importazioni di greggio. Il nostro Paese non ha ancora fatto investimenti significativi in fonti alternative a petrolio, gas o carbone, importa più dell’80% di energia primaria di cui ha bisogno e produce energia elettrica per il 70% con combustibili fossili. Con buona pace delle nostre imprese che continuano a pagarla circa il 30%-35% in più rispetto ai concorrenti europei.
Bruno Pampaloni