Seeds & Blue Chips: quando i grandi danno patenti di “sostenibilità”
Sto invecchiando o diventando saggio? Non lo so, ma i palchi scintillanti e i nomi dei guru nei programmi degli eventi non mi danno più emozione. Non disdegno la forma, ma sono sempre più attratto dalla sostanza. Seeds & Chips, “The Global Food Innovation Summit“(Milano, 7-10 maggio 2018), è indubbiamente una manifestazione fascinosa, ma la sensazione è che le suggestioni cucinate dal bravo cerimoniere Marco Gualtieri (il Farinetti lombardo?) facciano perdere di vista tutto il resto.
Se tra gli hashtag appaiono #sustainability e #climatechange, io poi divento automaticamente pistino e inizio a fare le pulci. Perché non ho nulla contro la grandeur milanese (ho vissuto e lavorato con piacere in città), ma da umile e squadrato torinese inizio un po’ a ribollire quando vedo che si vuole l’uovo e la gallina. Vuoi fare il megaevento food con i grandi sponsor? Bene. Vuoi i grandi nomi per dare lustro e attrarre i media? Niente di male. Magari fai anche profitto sull’evento e crei indotto? Benissimo, siamo tutti felici. Ma se inizi a piegare i concetti di sostenibilità e green economy a uso e consumo delle multinazionali più scaltre (vedi Expo 2015) e lasci che sia il loro verbo a guidare giovani startuppers di belle speranze verso una presunta “innovazione” e un “futuro migliore”, allora – con tutto il rispetto – mi girano un po’le balle.
E’credibile che la “soluzione” ai problemi ambientali, sociali ed economici del mondo arrivi da Bayer, da 3M, da Intesa Sanpaolo, da Bolton Food, da Unilever e da qualche altro gigante della grande distribuzione? Personalmente non ho pregiudizi contro nessuno e mi rallegro quando vedo riduzioni degli impatti ambientali nei processi produttivi industriali di chiunque, ma se guardo i fatti, ad oggi – e non il marketing – faccio molta fatica a crederlo.
E, veramente, le “innovazioni” alle quali possiamo ambire per migliorare la salubrità e disponibilità di cibo, sono pallide insalatine da coltura idroponica abbronzate alla luce di lampade elettriche in un capannone di cemento armato? O droni che dispensano agrofarmaci sui campi con la precisione di un farmacista? Mi fa un po’orrore. Credo che potremmo fare di meglio grazie alla formazione, all’istruzione e alla sensibilizzazione ecologica dei “nuovi contadini” di seconda o terza generazione, al loro ritorno alla terra e alla riqualificazione dei vecchi borghi periferici di campagna e di montagna. La tecnologia, lo sappiamo, può aiutare, ma non è mai la soluzione, tanto più nelle mani sbagliate di chi cerca solo profitto, guadagni sulle spalle altrui, finanziamenti e buoni affari a basso rischio imprenditoriale.
Prima di dare per scontato che nel 2030 le metropoli esploderanno di abitanti affamati, riqualifichiamo e portiamo i servizi e la banda larga nei centri “minori” (io penso, in controtendenza, che diventeranno sempre più appetibili in futuro), prima di triplicare la produzione di cibo riduciamo gli sprechi cambiando le abitudini di consumo e di recupero (come promuovono, tra gli espositori di Seeds & Chips, le startup Rebox e Wasteless), prima di inginocchiarci e pendere dalle labbra dello chef di Obama, ascoltiamo “sul campo” i nostri tanti contadini biologici anonimi, che da decenni mettono le mani nella terra e osservano, con i loro occhi, gli effetti quotidiani devastanti dei cambiamenti climatici. Non saprei dire se questa ricetta possa funzionare ovunque nel mondo, ma sono fermamente convinto che possa dare ottimi risultati e vera innovazione in un paese come l’Italia, dove (vivaddio) le micro e piccole imprese del settore alimentare sono più numerose delle multinazionali e dove la biodiversità e l’autenticità locale sono delle cifre distintive che possono diventare un vantaggio competitivo, se inserite in un “ecosistema” che le valorizzi adeguatamente.
Per quanto possa valere il mio giudizio, sarei ingrato a sminuire Seeds & Chips con una recensione tranchant. Indubbiamente tra le sue corsie si annida del buono e nei suoi “pitch” si confrontano giovani imprenditori con buone idee e buona volontà, ma gli organizzatori dovrebbero ricordare che quando si punta così in alto si assumono delle responsabilità importanti e si creano delle aspettative che andrebbero mantenute. Perché, ad esempio, in un evento che si definisce, senza mezzi termini, “the leading food innovation summit in the World“, il bar del centro fieristico non è stato “educato” a servire acqua in caraffe di vetro, ma dispone solo di anacronistici e sovrabbondanti bottiglioni di plastica da 75 cl.? Perché nelle pause tra un convegno e l’altro, mi devo accontentare di un pasto da “autogrill” con panini o insalate dozzinali dove l’ingrediente non conta nulla? Da sbranare di fretta su un tavolino da fast food. Non è certo l’espressione migliore del food Made in Italy, tanto meno per i numerosi visitatori stranieri della manifestazione. E perché tutto quello che viene avanzato finisce, insieme alle stoviglie di plastica, in due soli bidoni della spazzatura indifferenziata? Mi dispiace fare il puntiglioso, ma il futuro esige coerenza e concretezza per essere sostenibile e i dettagli, per me, contano più di qualsiasi CEO di Starbucks.
Andrea Gandiglio