Milano Fashion Week: la moda dimentica il “green mood” e torna alla pelliccia
Sette giorni ininterrotti di eventi e preview, settantadue sfilate, sessantotto brand. Questi i numeri della Fashion Week conclusasi ieri a Milano. Dal 22 al 28 febbraio infatti nel capoluogo lombardo è andata in scena l’alta moda che, reduce dalla Fashion week newyorkese (e ora in scena a Parigi), ha fatto tappa in Italia per presentare “la donna che vedremo il prossimo inverno”.
Dopo tanta trasgressione il messaggio è quello di un ritorno alla sobrietà e al decoro; il fascino del rigore contagia tutti i grandi stilisti, da Gucci a Prada, da Fendi a Max Mara, che propongono una figura femminile in grado di mixare sapientemente dettagli aggressivi ad un fascino sexy e delicato ma mai volgare. Sulle passerelle quest’anno ha trionfato la donna intellettuale, pazza per il cinema d’antan (come quello di The Artist,premiato dagli Oscar) al quale si ispirano abiti dalle linee nette e dai dettagli scenografici sapientemente integrati ad uno stile modernista. L’ispirazione è quella di una moderna Marlene Dietrich, in grado di sedurre con uno stile “maschile al femminile” che la rende intrigante e ben si identifica nel neologismo “emancipate-chic”.
La gamba nuda scompare per lasciare il posto alla seduzione della calza velata nera, tornano in scena le scarpe a punta e le decolletè sono imprescindibili. La via di mezzo è abolita, il tacco alto diventa un must per il giorno e per la sera. Si riscoprono cappotti di loden, montgomery, cappe e mantelle fatte a poncho (da impreziosire con cintura in vita per dare risalto alle forme), che facilmente possono essere trovati anche negli armadi di famiglia e riadattati ai tempi.
La settimana della moda milanese è stata caratterizzata da collezioni che hanno saputo amalgamare classicismo e innovazione per un risultato decisamente chic. Ma in mezzo a tanta creatività e bellezza dov’è finito il fattore green dell’ecofashion che, solo pochi mesi fa, sembrava sulla via di un’affermazione definitiva? Poche, anzi, pochissime le proposte in cui la sostenibilità sia stata tenuta in considerazione, se si esclude qualche sporadico esempio.
Tra i tessuti la pelliccia (vera) è stato purtroppo il più gettonato e declinato in buona parte delle proposte, dal total look alla semplice rifinitura. Gli animalisti sono infatti saltati in rivolta durante una delle sfilate, per portare l’attenzione sui 55 milioni di animali che ogni anno perdono il loro manto per impreziosire abiti e accessori. Quasi uniche note positive i cappotti e i cappelli in “eco-pelliccia” di Blugirl e l’iniziativa della stilista Elisabetta Franchi, che ha aderito al Fur Free Retailer Program, il progetto in collaborazione con Lav per l’abolizione della pelliccia come tessuto. Lapin, zibellino brinato, antilope, coccodrillo e pitone sembrano purtroppo tornati di prepotenza sulle passerelle, incuranti del buon esempio dato proprio in questi giorni dalle celebrities presenti agli Academy Awards che hanno in parte aderito a“The Green Carpet Challenger”, la sfida lanciata da Livia Firth, moglie dell’attore Colin, che ha proposto alle colleghe di indossare durante la notte degli Oscar abiti etici e ecosostenibili.
Che l’alta moda non sia un settore in cui si respiri, complessivamente, aria di tutela ambientale è noto, anche se forse basterebbe ispirarsi alle idee positive che talvolta si ha il piacere di scoprire. Come ad esempio “The Green Show”, una sorta di sfilata-satellite interamente dedicata a brand che abbiano fatto dell’eco fashion la propria bandiera e che da anni fa da contorno alla Mercedes Benz Fashion Week di New York (non priva di una certa contraddizione per l’insolito mix tra motori e sostenibilità). Forse Milano non è ancora pronta per un passo del genere. O forse tenterà di riscattarsi, proprio nei prossimi giorni, con “The Green Closet”, un progetto di collezioni con etichetta “verde”, che verrà presentato durante gli eventi in Via Tortona, a firma Pitti Immagine. L’obiettivo dichiarato è sottolineare quanto sia fondamentale, in tutti i campi della creatività e dell’impresa, ricorrere a processi di lavorazione “naturali”. Speriamo che i promotori ci credano davvero.
Ilaria Burgassi