Il Chianti in Trentino? A Vinitaly 2012 irrompono le questioni ambientali
Arriveremo a coltivare le uve Sangiovese per il Chianti oltre i 1.000 metri di altitudine? Le vendemmie saranno sempre più anticipate? L’Aglianico e la Falanghina scompariranno dalle nostre tavole? Sono solo alcune delle preoccupazioni, legate ai cambiamenti climatici in atto, che quest’anno hanno fatto breccia al Vinitaly, la più grande manifestazione europea dedicata al vino e ai distillati, in chiusura oggi a Verona. Ad avanzarle è stata l’associazione Greenpeace, domenica 25 marzo, in occasione della presentazione dello studio “Quale futuro per il vino italiano? L’effetto dei cambiamenti climatici sulla produzione vitivinicola“, in cui si mettono in guardia Governi e agricoltori sul fatto che, se non riusciremo a mantenere l’aumento della temperatura globale entro i 2°C – combattendo innanzitutto le emissioni di gas serra – anche per il vino le conseguenze saranno devastanti.
E ‘un messaggio d’allarme che gli organizzatori di Vinitaly paiono aver ben recepito, evitando di bollarlo, con leggerezza, come l’incursione di qualche guastafeste nel tempio dell’edonismo. Le questioni ambientali, al contrario, quest’anno hanno trovato, in fiera, uno spazio mai riservato prima. A partire dalla rassegna Vi.Vi.T – Vigne Vignaioli Terroir, che vede concentrati, in un unico spazio al 1° piano del Palaexpo, 125 produttori di vino “naturale”, biologico e biodinamico. Ma anche nei convegni. La Regione Piemonte, ad esempio, in occasione del lancio del nuovo superconsorzio Piemonte – Land of Perfection, lunedì 26, ha voluto promuovere le proprie produzioni da agricoltura biologica in un incontro rivolto al grande pubblico, “Il bio in seria A. Il grande calcio incontra il buon bere biologico“, che ha visto consegnare il premio VINBIO Piemonte al Novara Calcio, la squadra che più si è distinta per la sensibilizzazione del proprio pubblico sulle tematiche ambientali (e che, non a caso, ha scelto un produttore di vini bio, l’Azienda Agricola Biologica “Bianchi” di Sizzano, come fornitore ufficiale).
L’impressione però, parlando con i visitatori, è che non a tutti sia chiara la connessione tra agricoltura biologica e biodinamica e cambiamenti climatici. Le uve coltivate secondo il metodo biologico e biodinamico, per intenderci, non solo consentono di produrre un vino più sano per chi lo beve, in quanto praticamente privo di residui chimici, ma anche di ridurre significativamente l’impatto ambientale dell’agricoltura, rinunciando a fertilizzanti e concimi di sintesi, che andrebbero ad alterare la fertilità e ricettività del suolo, generando inoltre maggiori emissioni di Co2. L’agricoltura, infatti, contrariamente a quanto abitualmente si pensa, non è tutta “verde”, ma purtroppo, nella maggior parte dei casi (anche delle aziende vitivinicole), fa ampio uso della chimica, che ormai da sessant’anni infesta la mente e le abitudini dei nostri contadini, spesso raggirati dagli “informatori scientifici” e da tutti coloro che hanno interesse a vender loro prodotti che, in realtà, mettono a rischio la salute non solo dei coltivatori, ma anche dei consumatori e l’integrità dei terreni e delle falde acquifere.
Non a caso, la proposta di riforma della PAC, la Politica Agricola Comune dell’Unione Europea, presentata a ottobre scorso dal Commissario Dacian Ciolos (presente lunedì a Verona) va nella direzione di premiare il cosiddetto “greening” e tutte quelle pratiche virtuose che consentono una riduzione dell’impatto ambientale, compresa l’agricoltura biologica. E non a caso il Ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, ha voluto presentare al Vinitaly 2012 il nuovo progetto “Impronta di sostenibilità“, per incoraggiare una maggiore ecosostenibilità del comparto vitivinicolo italiano, certificando la qualità ambientale della filiera con un marchio garantito dal Ministero. L’idea, certamente ambiziosa ma ampiamente condivisibile, è quella di “fare del nostro vino un ambasciatore, nel mondo, dello sviluppo sostenibile Made in Italy”. Il progetto, in concreto, punta alla creazione di un indicatore di sostenibilità ambientale partendo dalle cosiddette carbon & water fooprint (l’impronta di carbonio e l’impronta d’acqua, in termini di consumo, di un processo produttivo). Mentre il calcolo della prima è un traguardo raggiunto già da tempo, a livello internazionale, la metodologia di water footprint, in questo settore, è invece una novità del progetto, perché non ne esiste ancora una che sia certificata.
Al progetto del Ministero, al quale hanno già aderito volontariamente alcune aziende (come Antinori, Chiarlo, Mastroberardino, Castello Montevibiano Vecchio, Fratelli Gancia, Planeta, Tasca d’Almerita e Venica&Venica), collaborano il Centro di Ricerca Opera per l’Agricoltura Sostenibile dell’Università Cattolica di Milano, quello sulle Biomasse dell’Università di Perugia e Agroinnova, il Centro di Competenza per l’Innovazione in Campo Agro-ambientale dell’Università di Torino. “Il ruolo di Agroinnova - ci spiega il Direttore, Maria Lodovica Gullino – è principalmente quello di definire un indicatore di sostenibilità per la parte viticola di campo. Oltre infatti alla valutazione della water & carbon footprint, sarà necessario individuare il livello di sostenibilità della filiera vitivinicola in relazione, per esempio, all’impatto dei prodotti chimici utilizzati, delle pratiche colturali etc., che costituirà un’ulteriore parametro di valutazione necessario per conseguire questo nuovo tipo di certificazione. Verrà data particolare importanza anche alla valutazione del ruolo socio-economico delle produzioni viticole, anche in relazione al ruolo svolto nella tutela del paesaggio agrario.I nostri ricercatori e i nostri laboratori saranno quindi impegnati nel completare il quadro necessario al Ministero dell’Ambiente per garantire la corrispondenza delle produzioni vitivinicole prese in esame ai parametri di sostenibilità ambientale richiesti.”
Una svolta interessante per un settore che, nel recente passato, si è concentrato unicamente sulle qualità organolettiche del vino, tralasciando le questioni ambientali, che comunque – lo si voglia o no – ”entrano in bottiglia”. Ma importante anche per il fatto di ribadire il ruolo della certificazione, con parametri elaborati scientificamente e verificabili. Se infatti una critica va fatta, all’edizione 2012 del Vinitaly, è di non aver saputo distinguere adeguatamente tra i soi-disant produttori “naturali” autocertificati e i produttori biologici e biodinamici certificati da enti terzi e indipendenti. Una distinzione che, in tempi in cui regna ancora una grande confusione tra il pubblico e i greenwasher si annidano ad ogni angolo, sarebbe andata a diretto beneficio di un mercato in forte espansione, il quale, per mantenere la credibilità sul piano internazionale, va severamente tutelato da qualsiasi malintenzionato. Marina Marcarino, amministratore delegato del Consorzio Vintesa, che raggruppa alcuni produttori biologici e biodinamici (rigorosamente certificati) da diverse regioni d’Italia, infatti non ci sta. “In questi giorni ho letto sui giornali interviste a produttori di vino naturale che definiscono il proprio vino Vero o senza trucchi. Ma queste affermazioni non significano nulla e danno anche la pericolosa impressione che quello degli altri, magari certificati, sia un vino con alterazioni e sofisticazioni. Chi fa biologico per convinzione sa che certe cose in cantina non si fanno, anche qualora il disciplinare non ne parli esplicitamente. Perché nessun ente certificherebbe un vino che avesse subito quei trattamenti. In ogni caso il biologico si fa in vigna, è innanzitutto agricoltura. Nessuno potrà mai fare un vino biologico con un’uva chimica“.
Andrea Gandiglio