Giustizia ambientale: un meeting per disinnescare la “corsa del gambero”
La partita dei cambiamenti climatici può ancora essere vinta se i potenti della terra riusciranno nella scommessa di disinnescare “la corsa del gambero”, la gara a chi resta più indietro pensando di poter sfruttare i benefici della riduzione delle emissioni di gas serra – realizzata però dagli altri!
L’immagine – utilizzata nella sua relazione introduttiva dal presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, Edo Ronchi – è risultata così efficace da essere stata ripresa più volte dai discussant intervenuti al meeting internazionale “Giustizia ambientale e cambiamenti climatici – Verso Parigi 2015″ chiusosi oggi nella Capitale, presso l’Istituto Patristico Augustinianum.
I due giorni di confronto – promossi dalla Fondazione di Ronchi, con il patrocinio del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace e del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari – hanno visto i più importanti esperti mondiali del settore confrontarsi con gli esponenti della Chiesa cattolica, dopo che Papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’ ha ammonito: “è diventato urgente e impellente lo sviluppo di politiche affinché nei prossimi anni l’emissione di anidride carbonica e di altri gas altamente inquinanti si riduca drasticamente”.
Secondo le stime recenti dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, le emissioni mondiali di CO2 da processi energetici sarebbero destinate a crescere dell’8% fino al 2030: dai 32,2 miliardi di tonnellate del 2013 a 34,8 miliardi, anziché diminuire a 25,6 miliardi come previsto dalla traiettoria necessaria per limitare l’aumento della temperatura media globale entro i 2°C, soglia di sicurezza concordata dagli scienziati. La Cina, in particolare, emetterebbe 3,7 miliardi di tonnellate in più di quelle previste, mentre gli USA 1 miliardo in più. Dal 1990 al 2014 le emissioni sono cresciute di oltre il 30% e la concentrazione di gas serra ha superato le 400 parti per milione, la più alta degli ultimi 800 mila anni. Per poter restare – con una probabilità superiore al 50% – entro l’aumento di 2°C, le emissioni mondali di gas serra nel 2050 dovrebbero essere tagliate del 40-70% rispetto a quelle del 2010.
Che il tasso di crescita delle temperature medie globali sia passato dall’1,3% del 1970-2000 al 2,2% del 2000-2010, del resto, lo sostiene il 5° Rapporto di Valutazione dell’Intergovernmental Panel on Climate Change e, in assenza di ulteriori misure di mitigazione, questo trend porterà a un innalzamento della temperatura media terrestre compreso tra i 3,7 e i 4,8° C, con una concentrazione di CO2 compresa tra 750 e 1.300 ppm (parti per milione) – a fronte di una soglia di sicurezza raccomandata (inserita nella trattativa sul nuovo Accordo globale per il clima), di +2°C con CO2 non superiore a 450 ppm.
Le conseguenze di un aumento medio della temperatura globale di 4°C, secondo la World Bank, sarebbero drammatiche. Le ha ricordate, nel proprio intervento, lo specialista in energia e ambiente, nonché presidente ad interim dell’IPPC, Ismael El Gizouli: scarsità di risorse idriche e di approvvigionamento delle scorte alimentari, crescenti inondazioni e straripamenti, sempre più persone che a causa di eventi atmosferici rischiano di essere sfollate, aumento della povertà in intere regioni del Pianeta (Sud Est asiatico, Africa e America Latina) che, pur avendo emissioni pro-capite basse e nessuna responsabilità per le emissioni storiche, saranno quelle più colpite dalla crisi climatica.
Lo sapevamo già dal 2012, quando il rapporto del Segretario Generale delle Nazioni Unite sui diritti umani e le migrazioni, conteneva – citandone i dati – una ricerca secondo cui più di 250 milioni di persone potrebbero essere sfollate a causa dei cambiamenti climatici. Si tratta dei cosiddetti “rifugiati climatici”: è quanto è successo in Siria, dove - secondo lo studio della National Academy of Sciences of the United States of America – l’eccezionale siccità del triennio 2007-2010 (attribuibile per la sua intensità ai cambiamenti del clima), ha contribuito al conflitto, iniziato nel 2011.
Nei Millennium Development Goals – ultimo Report del 2015 – si afferma che il “cambiamento climatico e il degrado ambientale minano il progresso raggiunto e la gente povera soffre di più […] perché i suoi mezzi di sostentamento sono più direttamente legati alle risorse naturali”.
Chi, nel corso della prima giornata di lavori, si è soffermato sul forte collegamento esistente tra cambiamenti climatici e povertà, è stato Nicholas Stern, coordinatore del “Rapporto Stern sui Cambiamenti Climatici” del 2006. Economista e accademico inglese – autore di “Un piano per salvare il pianeta” (2009) e del più recente “Why are You Waiting? The Logic, Urgency and Promise of Tackling Climate Change” – Lord Stern parla delle due sfide di questo millennio, di due battaglie cruciali: quelle contro il cambiamento climatico e contro la povertà. E dice: “Se falliamo nella prima sfida, creeremo un ambiente così ostile da distruggere moltissime vite umane; ma se riusciremo nell’intento di mitigare le temperature sempre crescenti, in modalità tali da rendere possibile il contrasto della povertà in alcune Regioni del mondo, allora la battaglia ai cambiamenti climatici sarà vinta. Fallire nella prima sfida significherà fallire nella seconda”. E conclude: “Solo da un accordo delle leadership politiche e morali insieme ai movimenti sociali sarà possibile ottenere risultati tangibili”. L’appello è esplicito ed è rivolto direttamente al sommo Pontefice della Chiesa Cattolica, “investito di uno straordinario carisma in tutto il mondo”, perché ormai “la volontà politica non basta più”.
L’appuntamento cruciale sarà a dicembre, con la Conferenza di Parigi sul Clima (COP21) dove ci si riunirà con la certezza che gli impegni assunti fino ad ora non sono sufficienti. Le chances di raggiungere a Parigi un accordo internazionale adeguato e sufficiente per rientrare nello standard dei 2°C, dipendono, in buona parte, dagli impegni di Cina (che continua ad aumentare le emissioni), USA (che le stanno diluendo troppo poco) ed Europa (che potrebbe fare meglio), i tre principali emettitori di gas serra. Premessa indispensabile al buon esito dell’accordo è una: la questione dell’equità nella distribuzione degli sforzi necessari a contrastare i cambiamenti climatici. Accanto a questa, l’assunzione di impegni legalmente vincolanti e la previsione delle misure adottate per raggiungerli (divieto di costruzione di nuove centrali a carbone per i Paesi con emissioni pro-capite superiori a 3 t l’anno, eliminazione dei sussidi ai combustibili fossili entro il 2020, riduzione della produzione dei rifiuti e aumento del riciclo, efficienza energica e mobilità sostenibile).
Il tempo delle infinite trattative portate avanti da una politica tesa solo a risultati immediati è finito: la giustizia ambientale, secondo i partecipanti del meeting, è l’unica strada per salvare il Pianeta “ferito”.
Ilaria Donatio