Durban: impossibile… finchè succede?
A metà dei negoziati sul clima della Conferenza delle Parti (COP 17) di Durban ancora non si è arrivati a un testo negoziale da sottoporre ai ministri, in arrivo questa settimana. Le priorità e gli argomenti su cui cercare una convergenza sono state riassunte nella giornata di apertura dal presidente della COP 16, che si è tenuta a Cancun l’anno passato: implementare gli Accordi di Cancun e il Green Climate Fund e decidere sulle sorti del Protocollo di Kyoto.
Il Protocollo di Kyoto, il trattato vincolante che impegna alcuni Stati industrializzati a tagliare le proprie emissioni di gas serra, è infatti in scadenza nel 2012; urge trovare un sostituto o dare inizio a una nuova fase del trattato, ma da alcuni anni ormai i negoziati sul clima sono fermi su alcune questioni determinanti ai fini della sigla di un nuovo trattato. Da una parte, c’è il principio della “responsabilità comune ma differenziata”, che è alla base di tutto il processo negoziale. Questo principio era inizialmente stato introdotto per sottolineare la differenza in termini di responsabilità e peso economico di alcuni Stati: storicamente, ad esempio, la Cina ha appena iniziato a emettere gas serra, mentre il riscaldamento globale attuale è dovuto principalmente alla CO2 e altri gas emessi principalmente dai Paesi occidentali. Oggi la Cina è il primo emettitore globale di gas serra; ma ancora un cinese inquina un terzo di un europeo e un quarto di un americano. Chi deve dunque cominciare a diminuire per primo le proprie emissioni?
La seconda questione è quella del regime legale del nuovo trattato: a opporsi all’ipotesi di un accordo legalmente vincolante sono soprattutto i Paesi emergenti, che vedono un possibile ostacolo al loro sviluppo. Anche gli Stati Uniti hanno difficoltà ad accettare un impegno vincolante: non solo per l’opposizione interna dei repubblicani, ma anche a causa della difficoltà a far accettare dal Senato la ratifica di un trattato internazionale; per questo il Protocollo di Kyoto, inizialmente firmato da Bill Clinton, non è riuscito ad avere la ratifica del suo stesso Senato.
Queste due questioni si stanno ripresentando sostanzialmente “intatte” sin dalle negoziazioni di Copenhagen del 2009, anche se nel frattempo ci sono stati dei progressi su alcune questioni collaterali: come i finanziamenti, con l’istituzione di un fondo, il Green Climate Fund, che dovrebbe portare 100 miliardi di dollari alle azioni di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici; e la discussione sulle foreste, con il meccanismo REDD (Reducing Emissions from Deforestation and Degradation).
L’Europa è arrivata a Durban con una posizione simile a quella degli anni passati, anche se un po’ più pessimista: chiede di non avere periodi di gap tra i trattati, di stabilire innanzitutto un sistema di rendicontazione dei gas serra su scala globale, soprattutto per i Paesi emergenti e di iniziare un percorso che porti a un accordo vincolante al 2015. Il periodo tra il 2012 e il 2015 potrebbe quindi essere colmato con una seconda fase del Protocollo di Kyoto, mentre si dovrebbe parlare adesso di come stabilire una tempistica certa e chiara su come raggiungere un nuovo trattato al 2015. Durante i negoziati, sono arrivate voci, riportate dai media, che il Canada stia pensando a uscire dal Protocollo di Kyoto. Per questo ha vinto meritatamente il premio Fossil of the Day, riconosciuto allo Stato che più si è distinto nel bloccare gli accordi. Sembra che anche gli Stati Uniti siano fermi sul non discutere una loro possibile partecipazione a un Protocollo simile a Kyoto. La Cina invece sarebbe a favore di una seconda fase del Protocollo di Kyoto, come pure all’implementazione degli Accordi di Cancun.
Nell’apertura, il segretario generale dell’UNFCCC, la United Nation Framework Convention on Climate Change, Christiana Figueres, citando Nelson Mandela, aveva detto: “sembra sempre impossibile, finché succede”. Ecco, diciamo che al momento sembra impossibile che si riesca a trovare un accordo multilaterale abbastanza ambizioso da vincere la sfida dei cambiamenti climatici. Ma la speranza che succeda è l’ultima a morire.
Veronica Caciagli