Decresco, dunque sono.
Un vero e proprio trattato di filosofia pratica. Una dura critica dello status quo e dei pregiudizi esistenti, una decostruzione di concetti sedimentati in decenni di storia dello”sviluppo”, uno smascheramento di ciò che crediamo essere indispensabile nella vita quotidiana e la proposta di una nuova Weltanschauung, di un nuovo modo di intendere e vivere il mondo che abitiamo e le risorse che ci offre.
Come ha dichiarato Gianni Vattimo, durante la presentazione del saggio al Circolo dei Lettori di Torino, “dalla quiete delle sua cascina tra i boschi e le colline del Monferrato, Pallante ci ha regalato, con questo nuovo libro, un manualetto di autocoscienza ecologica ed economica” che spazia dallo sfatare i “falsi miti” della crescita ai “consigli per spendere meno e vivere meglio”.
Dopo il successo di La decrescita felice. La qualità della vita non dipende dal PIL, saggio pubblicato nel 2005 che, consultato oggi, sembra essere frutto della lettura in una sfera di cristallo, ne La felicità sostenibile Pallante ribadisce il concetto: “un’economia fondata sulla crescita del PIL capovolge il rapporto tra produzione e consumo: non si produce per rispondere a una domanda, ma si deve consumare per poter continuare a produrre e si deve produrre per poter ottenere il reddito necessario a consumare. Attua quel processo che Pasolini definì una mutazione antropologica, fondata su uno stato di insoddisfazione permanente, di competizione esasperata, di nevrosi generalizzata. La crescita del PIL comporta il dominio delle cose sugli esseri umani”.
Sulla scia di questo leit-motiv, l’(agri)scrittore si cimenta in una puntuale critica dell’economia della crescita che, a suo parere, ha stravolto il significato di alcune parole per diffondere concetti funzionali ad un’egemonia culturale: la confusione tra il concetto di merce e bene, la differenza tra sapere e saper fare, la possibilità di coesistenza di decrescita e felicità, la relatività di povertà e ricchezza. Un filo rosso tiene insieme i capitoli per dimostrare che un modo differente di esistere e coesistere è possibile, senza per questo dover rinunciare a nulla.
Decrescita è una parola che spaventa, che fa pensare alla crisi, alla recessione, ad un abbassamento del tenore di vita, rievoca la rinuncia, il “tirare la cinghia” dei nostri nonni. Fa così tanta paura che quando il Pil di un paese diminuisce gli economisti preferiscono parlare di “crescita negativa”, introducendo un curioso ossimoro. Ma decrescita e recessione non sono la stessa cosa: il fatto che la parola incriminata sia costituita dal prefisso privativo de-, non deve condannarla ad una connotazione negativa. Decrescere è, infatti, negativo solo se si attribuisce alla crescita in sé un valore positivo.
Ciò che secondo Pallante deve mutare è l’idea, ormai radicata, che crescere coincida con produrre più merci (non beni!), per dare più posti di lavoro e permettere a più persone di inserirsi nel mercato diventando consumatori e dando vita ad un circolo vizioso che trasforma i rapporti umani in meri scambi economici. La recessione può essere la nostra ancora di salvezza: adottare uno stile di vita più sobrio che riscopra il piacere di produrre da sé alcuni beni (N.d.R. il Movimento per la decrescita felice ha dato vita a una vera e propria Università del Saper Fare con tanto di corsi molto affollati), che spinga a riciclare il più possibile per inquinare meno, che metta in luce i vantaggi di un mutuo scambio tra le persone non necessariamente finalizzato al profitto (ad es. le banche del tempo), tutto ciò non significa recedere o impoverirsi ma semplicemente crescere o arricchirsi “in un modo differente”.
“La decrescita presuppone una valutazione qualitativa di ciò che si ritiene utile produrre, di quanto si ritiene utile produrre e di come si produce. Mette in discussione la validità del prodotto interno lordo come strumento di valutazione del benessere, perchè si limita a misurare la quantità delle merci scambiate con denaro ma non è in grado di dare la minima indicazione sulla loro utilità, sull’equità della loro distribuzione tra le classi sociali e i popoli, sulle conseguenze della loro produzione nei tre momenti in cui interferisce con l’ecosistema terrestre: il prelievo delle risorse da trasformare in merci, i processi industriali con cui si realizzano queste trasformazioni, lo smaltimento degli scarti in cui le merci sono destinate a tramutarsi quando chi le ha acquistate decide di sbarazzarsene. Riducendo volontariamente la produzione di alcuni tipi di merci perché non hanno un’utilità effettiva o perché causano danni ambientali irreparabili o perché possono essere sostituite da prodotti analoghi che diminuiscono il consumo di risorse naturali e/o l’impatto ambientale e/o la qualità della vita, non si fanno rinunce o sacrifici. Si fanno scelte finalizzate a introdurre miglioramenti che non si potrebbero ottenere senza una diminuzione del PIL”.
Elena Marcon
In collaborazione con La Bottega dei Libri, Torino