Clima che cambia: adattarsi è indispensabile, ma senza panico
Ieri, proprio nel giorno in cui Roma aspettava l’avvicinarsi della perturbazione chiamata “Cleopatra”, con il tanto atteso nubifragio (mai arrivato), si svolgeva, nella capitale, la conferenza “Verso la Conferenza ONU COP18 sui Cambiamenti Climatici”, organizzata dal Kyoto Club nell’ambito del progetto CRES – Climaresilienti. “Il fenomeno delle bombe d’acqua esiste in natura, ma i cambiamenti climatici tendono ad aumentarne la frequenza – ha spiegato Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia - Ci apprestiamo a vivere in un’Italia che va verso una tropicalizzazione che avviene secondo un processo caotico. Gli scienziati già da anni ci dicono la diagnosi del nostro stato e che cosa dobbiamo fare.”
Per questo sembra più che mai importante, invece che generare panico inutilmente, andare alla causa a monte e arrivare, al più presto, alla sigla di un nuovo accordo internazionale per il clima, che regoli la fase del dopo Protocollo di Kyoto, in scadenza a fine 2012. In realtà alcuni Stati hanno già deciso di entrare in una seconda fase del Protocollo, ma la domanda vera è: che cosa succederà dal 2020? “La nuova fase del Protocollo di Kyoto di cui si parlerà a Doha deve tener conto di una novità rispetto alla prima fase: le conseguenze dei cambiamenti climatici sono già una realtà, che danneggia un numero crescente di persone”, ricorda Maurizio Gubbiotti, responsabile del dipartimento internazionale di Legambiente.
Secondo Francesco Ferrante, della Commissione Ambiente, Territorio e Beni Ambientali del Senato, occorre “comprendere che abbiamo innescato dei fenomeni pericolosi con l’utilizzo delle fonti fossili di energia. Ma sapere anche che non è inevitabile: dobbiamo trovare il modo di spingere in quella direzione, praticabile, dell’uscita dalle fossili. La tecnologia è la chiave di volta per il futuro.” Cita Zaki Yamani, ex ministro del petrolio dell’Arabia Saudita, e la sua celebre frase: “L’età della pietra non è finita per mancanza di pietre e l’età del petrolio finirà molto prima dell’esaurimento del petrolio.”
Sergio Castellari del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici spiega che, anche se riusciremo a ridurre le emissioni di gas serra in modo da limitare il rischio di danni rilevanti dei cambiamenti climatici sulla società umana, necessariamente “dovremo adattarci agli impatti già presenti e a quelli futuri. Il sud Italia in particolare subirà grandi cambiamenti: si prevedono per esempio una riduzione idrica dal 5 al 30%. Adesso la domanda è: la politica ha intenzione di scommettere sul 5 o sul 30%? In questo consiste la differenza tra ciò che dice la scienza e la politica”. La scienza parla infatti di probabilità di rischio, la politica deve interpretare la percezione e la propensione al rischio.
In Europa la discussione sull’adattamento al clima che cambia era già partita negli anni ’90, per poi arrivare al Libro Verde sull’Adattamento nel 2007, in cui si avviava una consultazione sulla futura politica europea, descrivendone le motivazioni, e al Libro Bianco del 2009, che “esorta” i Paesi membri ad adottare una strategia nazionale, sia per ridurre il rischio dei danni derivanti dai cambiamenti climatici, che per cercare di sfruttare gli eventuali futuri benefici locali: ad esempio, adattarsi ad avere a disposizione meno acqua può risultare anche in un uso più consapevole ed efficiente nella gestione delle acque.
Una buona notizia arriva dal Ministero dell’Ambiente, che ha iniziato un processo di coinvolgimento della comunità scientifica per elaborare i contenuti di una strategia nazionale italiana sull’adattamento ai cambiamenti climatici: agli stakeholder sarà richiesto di compilare un questionario online. Il documento finale sulla strategia dell’Italia dovrebbe essere pronto entro la fine del 2013.
Veronica Caciagli