Sacchetti per l’ortofrutta. CSI cerca di far chiarezza sui requisiti tecnici
Il dibattito sull’obbligo dei sacchetti biodegradabili per l’acquisto di frutta e verdura sfusa nei supermercati e nei negozi, scattato il 1° gennaio 2018, non si placa e cresce la confusione tra i consumatori. Per questo il laboratorio Food-Packaging-Materials di CSI, società del Gruppo IMQ, è voluto intervenire per fornire alcune informazioni tecniche, che spiegano, ad esempio, come vengono verificate la biodegradabilità e la compostabilità e perché non sono consentite le buste portate da casa (se non monouso).
Partiamo dalla compostabilità, che è la capacità di un materiale organico di trasformarsi in compost – una sorta di terriccio fertilizzante – mediante il processo detto, appunto, di “compostaggio”. Questo processo sfrutta necessariamente la biodegradabilità dei materiali di partenza. I test analitici per la verifica di questo aspetto, secondo la normativa UNI EN 13432:2002, riprendono in modo analogo quanto accade presso gli impianti di compostaggio. Il requisito è il raggiungimento di oltre il 90% di “frammentazione” in massimo 3 mesi, l’assenza di effetti negativi sul processo di compostaggio nonché l’assenza di effetti negativi sul compost finale (ovvero assenza di metalli pesanti o altri costituenti pericolosi e assenza di ecotossicità tramite la verifica di “germinazione” del compost finale).
La biodegradabilità è invece la capacità di materiali organici di potersi degradare in costituenti più semplici (quali acqua, metano, biomassa, CO2) grazie all’attività di microorganismi che si possono trovare in differenti ambienti naturali (fiumi, acqua marina, terreno). Anche in questo caso i test sfruttano condizionamenti nell’ambiente a temperature di poco più alte di quella abituale, per valutare lo sviluppo di CO2 nel tempo. Il requisito è il raggiungimento del 90% di biodegradazione in un tempo massimo di 6 mesi.
La nuova normativa prevede però che, oltre alla tutela dell’ambiente, i nuovi sacchetti per ortofrutta, debbano rispettare anche i requisiti di sicurezza alimentare. Oltre alle prove sopra elencate i sacchetti per ortofrutta devono quindi dimostrare di essere conformi ad entrare in contatto con gli alimenti secondo i regolamenti (UE) n. 10/2011, (CE) n. 1935/2004 e (CE) n. 2023/2006. Il legislatore richiede pertanto il controllo puntuale delle materie prime con cui vengono prodotti i materiali o gli oggetti destinati al contatto con alimenti (definiti con l’acronimo MOCA) nonché il controllo che il MOCA non mini la salute del consumatore, non modifichi inaccettabilmente l’alimento e non ne alteri gli aspetti organolettici. In questo caso il termine “controllo” viene utilizzato sia per indicare l’adeguatezza documentale, sia la conformità rispetto a test chimici e chimico-fisici utili a verificare che in nessun modo il MOCA possa contaminare l’alimento rilasciando in esso sostanze indesiderate mediante un fenomeno che, in questo ambito, viene definito “migrazione”. Questi test possono essere più o meno complicati, a seconda del materiale e della sostanza da valutare: stiamo infatti parlando della ricerca puntuale di quantità di singole e specifiche molecole in alimenti o in simulanti alimentari (soluzioni acquose o oleose che simulano, in fase di sviluppo e controllo, quello che sarà l’alimento posto in contatto con il MOCA).
Nel caso dei sacchetti costituiti da questi nuovi materiali (bioplastiche ecc.), spesso leggerissimi ed all’apparenza fragili, un altro aspetto che viene verificato nei laboratori CSI è quello delle performance: ad esempio la resistenza delle saldatura, la resistenza al carico statico ed a quello dinamico, nonché l’allungamento o la lacerazione, che sono aspetti che impattano fortemente sulla valutazione dell’idoneità tecnologica di questi prodotti.
Il problema delle buste riutilizzabili – che alcuni consumatori vorrebbero portare da casa – è che, in quanto derivanti da precedenti utilizzi, potrebbero essere state conservate in condizioni che favoriscono lo sviluppo microbico, soprattutto in presenza di umidità, di residui di alimento, o se custodite in luoghi poco puliti. In queste condizioni i microrganismi, anche patogeni, possono moltiplicarsi e aderire alla busta contaminando gli alimenti e le superfici con cui la busta viene a contatto. Ma non è solo la contaminazione microbiologica. Anche quella chimica può essere pericolosa: i luoghi di conservazione dei sacchetti, le cross-contamination, l’utilizzo incondizionato e improprio potrebbero inficiare la sicurezza chimica del sacchetto stesso. Per questo il Ministero ha permesso l’utilizzo di sacchetti portati dal cliente del punto vendita, purché siano nuovi e monouso.
L’introduzione degli eco-shopper a “pagamento esplicito” (cioè evidenziato nello scontrino; perché a pagamento lo erano già prima!) per l’ortofrutta sfusa, nei primi dieci giorni dell’anno, ha segnalato – come temevano alcuni – uno spostamento verso i prodotti già confezionati. Ciò è quanto emerge da un sondaggio realizzato dal Monitor Ortofrutta di Agroter in collaborazione con Toluna, che ha analizzato la reazione sull’intero territorio nazionale. Il 12% degli italiani, secondo l’indagine curata da Roberto Della Casa, docente di marketing dei prodotti agroalimentari all’Università di Bologna, ha preferito comprare prodotti preconfezionati per non dover “pagare” il sacchetto eco-bio, nonostante il packaging di confezionamento di frutta e verdura realizzato in azienda sia ben più caro. Un altro 21% del campione, invece, ha preferito rivolgersi al fruttivendolo – che tradizionalmente utilizza sacchetti di carta, quindi non soggetti a pagamento obbligatorio – invece che al supermercato. C’è anche un 7% di consumatori che indica di aver comprato meno frutta e verdura. Il 56% degli intervistati, invece, risponde di aver fatto spesa come al solito: un comportamento più marcato nei giovani (61%) rispetto agli over 55 (53%). Il 6% vorrebbe i vecchi sacchetti in plastica “gratuiti”, che in realtà gratuiti non lo sono mai stati, ma semplicemente inglobati nel prezzo di frutta e verdura sfusa.