Dalla concia al vapore alla lotta integrata: Agroinnova studia metodi sostenibili contro i patogeni
Viaggiano da un continente all’altro grazie allo scambio di merci e prodotti sempre più globalizzato; spesso raggiungono Paesi molto lontani dal proprio luogo d’origine, generando epidemie in grado di danneggiare fortemente in poco tempo intere colture. Sono gli “alieni”, patogeni portati da seme o da altro materiale vegetale non autoctoni del nostro Paese, che tanti problemi stanno creando al sistema agricolo italiano ed europeo (e non solo): basti pensare che spesso è sufficiente la presenza di un solo seme infetto ogni 10.000 per provocare gravi danni alla coltura.
Non è un caso che la Commissione Europea abbia recentemente elaborato una proposta per dare una risposta concreta al problema delle cosiddette specie aliene invasive, in modo da proteggere le biodiversità e gli ecosistemi e per minimizzare l’impatto che esse possono avere sulla salute dell’uomo, degli animali, delle piante e sull’economia dei Paesi. La proposta prevede tre tipi di intervento: prevenzione, sistemi di allerta e risposta rapida e gestione dell’emergenza, ed è attualmente al vaglio del Consiglio e del Parlamento europei.
In particolare contro gli alieni che minacciano piante e colture Agroinnova, il Centro di competenza per l’innovazione in campo agro-ambientale dell’Università di Torino, sta sperimentando continuamente nuovi metodi di difesa sempre più all’avanguardia e sostenibili. Il fenomeno infatti ha raggiunto in Italia dimensioni importanti, aggredendo nello specifico alcune cosiddette “colture minori”, in particolare quelle più tipiche, che rappresentano in realtà una parte considerevole delle coltivazioni del nostro Paese: due esempi su tutti quelli della Peronospora belbharii sul basilico e della Plectosphaerella cucumerina sulla rucola.
Per quanto riguarda il basilico è notizia recente che la produzione industriale di pesto sia entrata in crisi a partire dallo scorso anno proprio a causa degli effetti della Peronospora belbharii, un pericoloso parassita trasmesso per seme, segnalato in Italia per la prima volta una decina di anni fa, ma che la scorsa stagione, complice un’annata particolarmente fredda e piovosa, ha inferto ingenti danni alle colture italiane di basilico concentrate in Piemonte, Emilia Romagna e Liguria, trasferendo a cascata i propri effetti nefasti sulle industrie di trasformazione e determinando quindi il crollo della produzione della nota salsa di origine ligure.
Il primo violento attacco della Peronospora belbharii sulle colture italiane di basilico risale all’autunno del 2003. A seguito di tale epidemia per due o tre anni fu molto difficile trovare nei ristoranti della regione la celebre pasta al pesto – la salsa a base di basilico nota in tutto il mondo. L’80% degli oltre 100 ettari coltivati a basilico in Liguria erano stati infatti interessati dalla malattia e a causa del crollo della produzione molte persone persero il lavoro. Il motivo di tanta devastazione va ricercato nel fatto che in Italia la malattia era precedentemente sconosciuta e non esistevano fungicidi autorizzati per contrastare gli attacchi del nuovo patogeno. Furono necessari alcuni mesi per consentire ai ricercatori di Agroinnova di trovare contromisure adeguate alla malattia da mettere a disposizione degli agricoltori e ciò nonostante il problema si ripropone oggi con particolare virulenza.
In realtà alcuni attacchi di Peronospora sulle coltivazioni di basilico erano stati osservati in Uganda negli anni ’30, ma fino a che la malattia non si manifestò in un orto familiare in Svizzera nel 2002, nessuno prese in seria considerazione la minaccia. Dalla Liguria il patogeno si spostò poi in Costa Azzurra, dilagò in Francia e raggiunse la California. Come è stato possibile tutto questo? Perché la malattia si trasmette attraverso semi infetti, semi che vengono prodotti in pochi stabilimenti, in genere in area subtropicale, e commercializzati in tutto il mondo, per i quali la globalizzazione e il rapido scambio intercontinentale delle merci rappresenta un’opportunità di diffusione formidabile.
Situazione analoga per la rucola selvatica, che è andata recentemente incontro ad un aumento delle superfici coltivate grazie a mirate politiche di mercato. In Italia la coltivazione di questo ortaggio è principalmente localizzata in Campania e in Lombardia. Ma proprio la diffusione della sua coltivazione ha favorito l’insorgenza di malattie mai osservate prima su questa pianta, per molte delle quali è stata dimostrata la trasmissibilità per seme, particolarmente pericolosa in aree di coltivazione intensiva in serra.
Anche in questo caso va tenuto in conto il fatto che il materiale riproduttivo è prodotto in pochi stabilimenti specializzati, spesso situati in Paesi in via di sviluppo, e di qui inviato in tutto il mondo. Questa tendenza, sempre più diffusa negli ultimi anni, ha comportato da un lato un miglioramento dei livelli qualitativi della semente grazie all’impiego di tecnologie sempre più sofisticate, ma dall’altro ha favorito la rapida diffusione di parassiti in molte aree geografiche diverse da quelle in cui i semi sono stati prodotti. E proprio grazie agli studi condotti da Agroinnova su alcuni campioni di rucola campana è stata rilevata, nella primavera del 2012 – per la prima volta in Italia e nel mondo – una nuova malattia. Le ultime tecnologie di diagnostica molecolare condotte nei laboratori di Agroinnova hanno consentito di identificare il patogeno: si tratta di Plectosphaerella cucumerina, segnalato come responsabile di gravi danni su differenti colture sulle quali provoca sintomi più o meno gravi in diverse parti del mondo, ma mai prima d’ora sulla rucola.
Ma come ridurre il rischio di trasmissione e diffusione delle malattie trasmesse da seme? “Su questo fronte l’impegno di Agroinnova è articolato su diversi livelli – commenta Angelo Garibaldi, presidente del Centro – grazie ad un laboratorio attrezzato e specializzato proprio nello studio delle malattie trasmesse per seme. Il laboratorio opera in stretto contatto con le aziende sementiere, occupandosi non solo di diagnosi e di caratterizzazione dei patogeni, ma anche di tecniche di concia – ovvero di risanamento – dei semi con i metodi più opportuni, derivanti dalla ricerca”.
“In primo luogo è fondamentale la fase diagnostica – aggiunge Maria Lodovica Gullino, direttore di Agroinnova – Spesso la difficoltà maggiore sta nel chiarire immediatamente e con certezza l’origine geografica dei semi infetti, anche a causa, talvolta, di resistenze da parte delle imprese sementiere che commercializzano il materiale propagativo. Le aziende devono invece comprendere che una collaborazione sempre più stretta fra ricercatori, imprese e agricoltori non può che giovare all’intero sistema, soprattutto se si considera il fatto che la globalizzazione dei mercati e lo scambio di sementi da un Paese all’altro non si può fermare, mentre i parassiti si”.
A questo proposito sta crescendo oggi di importanza la diagnostica molecolare che permette di analizzare il DNA delle sementi. Si tratta di un metodo rapido ed efficace, due caratteristiche fondamentali quando si ha a che fare con potenziali epidemie, in un contesto in cui rapidità e dati certi sono determinanti.
Identificato il patogeno si devono poi applicare mezzi di lotta efficaci. Di grande importanza in questo senso sono i sistemi di concia cioè di disinfezione dei semi: un trattamento dei semi con acqua o aria calda a temperature variabili tra i 45 e i 70 gradi può arrivare ad eradicare completamente alcuni patogeni dai semi. Infine vanno segnalati i mezzi biologici, con l’impiego, in fase di concia del seme, di micro-organismi antagonisti, in grado di contrastare il patogeno, senza determinare alcun effetto negativo sulla pianta o sul consumatore finale. Agroinnova sta saggiando tutti questi metodi da soli o combinati, per trovare per ogni pianta e per ogni malattia la lotta più efficace.