Ricerca, sviluppo e innovazione. La chiave per le rinnovabili del futuro
In Italia, le fonti tradizionali costituiranno il principale serbatoio energetico ancora per molti anni. E, per quanto si sia fantasticato a lungo sulla “prossima” fine del petrolio e nonostante la difficoltà a soddisfare la domanda in costante aumento, seguiteremo a convivere con la dipendenza da barile per qualche decennio.
Proprio recentemente l’amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, ha stimato in 70 anni le riserve mondiali. Secondo Scaroni il nostro pianeta avrebbe la disponibilità di riserve chiamate “sicure” di oltre mille miliardi di barili. A queste si aggiungerebbero le riserve “probabili” e quelle “possibili”. Per un totale di circa cinque mila miliardi di barili di petrolio. Inutile, così, farsi troppe illusioni su rapidi cambiamenti epocali dettati dalle “magnifiche sorti e progressive” della Green Energy.
E tuttavia resta indispensabile, meglio, doveroso, immaginare un modello di sviluppo differente da quello attuale. Che, certo, comincia a mostrare qualche affanno. Soprattutto per un paese come il nostro che importa più dell’80 per cento dell’energia primaria di cui ha bisogno. Nuovi scenari non possono prescindere pertanto da un serio ragionamento sulle fonti alternative a quelle fossili. Il cui progresso dipenderà soprattutto dalla capacità che avremo di investire in ricerca e sviluppo.
Produrre ricerca (non solo in campo energetico, ovviamente) serve anche a conquistare nuovi mercati e a formare un patrimonio di intelligenze qualificate, necessarie alle aziende italiane più competitive. Il vero miracolo italiano è stato infatti, negli ultimi anni, quello compiuto dalle nostre migliori imprese che, almeno fino ad oggi, hanno saputo stare sul mercato nonostante le inefficienze del sistema-paese.
Temi delicati e ancor più decisivi in un momento di crisi economica e sociale. Temi, dunque, che non possono non riguardare anche il settore energetico, proprio perché esso dipende anche dalla qualità e dalla quantità di ricerca messa in atto. Ricerca di eccellenza è sicuramente quella del Dipartimento Energia del Politecnico di Milano, diretto dal Professor Ennio Macchi, che pare piuttosto scettico sulla situazione attuale: “Per avere un’idea chiara della situazione è bene fare una premessa. Tranne la geotermia e l’idroelettrico, presenti in Italia da sempre, le fonti rinnovabili stanno in piedi grazie agli incentivi. Che spesso sono di entità talmente elevata da moltiplicare il chilowattora elettrico ceduto alla rete fino a cinque o sei volte rispetto ai prezzi di mercato e a seconda delle diverse tipologie. Ecco perché bisogna continuare a fare ricerca: per realizzare innovazioni capaci di portare, in futuro, le fonti rinnovabili ad una reale competitività”.
Di fatto, l’opinione pubblica confonde spesso due temi che dovrebbero rimanere invece assolutamente distinti: diffusione degli impianti rinnovabili “tradizionali” e ricerca e sviluppo su questo tipo di fonti. La prima non ha alcun senso senza un forte investimento nei secondi. Tanto per capire: grazie agli incentivi, è possibile installare un gran numero di impianti fotovoltaici senza sviluppare una tecnologia più evoluta dell’attuale e ottenere un abbattimento dei costi industriali.”Ma questo non ha nulla a che fare con la vera competitività.”
Non solo. I disturbi provocati alla rete elettrica da alcune fonti rinnovabili come il solare o l’eolico, intermittenti e aleatorie, non sono significativi in caso di modesta diffusione degli impianti. Perché la rete è sufficientemente grande da assorbire eventuali piccole variazioni. Ma il problema si porrebbe in caso di grande espansione. “Ecco perché serve la ricerca sulle gestione “intelligente” della rete, dei sistemi di accumulo e delle centrali” puntualizza Macchi. Ricerca, sviluppo e innovazione. Quasi un mantra da ripetere all’infinito. Senza, non vi è capacità di competere. Ecco perché al Politecnico vengono studiate le tecnologie più avanzate nel settore dell’energia solare, a cominciare dal solare termodinamico a concentrazione e dalla ricerca di base sui nanomateriali per le celle fotovoltaiche di terza generazione. Che dovrebbero coniugare bassi costi al metro quadro ed elevati rendimenti di conversione. “Il settore ha davvero grandi potenzialità” conferma Macchi.
Nel dipartimento si sviluppano anche tecnologie legate all’utilizzo razionale delle biomasse con soluzioni cogenerative avanzate o produzioni di biocombustibili. Utili sia per il trasporto sia per alimentare le reti di gas naturale. Sono poi studiate la filiera dell’idrogeno, le smart grid, la generazione distribuita, la micro generazione e la trigenerazione. Oltre naturalmente a tecniche e sistemi di sequestro della CO2 e al cosiddetto nucleare “di nuova generazione”.
Ricerca di qualità insomma. Anche perché nel dna del Politecnico è presente un forte legame con le aziende. “La nostra è infatti ricerca applicata a fini industriali”. E la grande industria in qualche modo fa la sua parte. “Tuttavia dialoghiamo anche con le piccole-medie aziende italiane” Le fonti di finanziamento maggiore restano comunque utilities e società petrolifere, come Enel, Eni, Edison/Edf, British Petroleum o A2A. Contributi arrivano anche dal Ministero dell’Università e della Ricerca, da quello dello Sviluppo Economico e dalla Regione Lombardia. “Ci avvaliamo poi di fondi del settimo Programma Quadro dell’Unione Europea e dell’aiuto della Fondazione Cariplo. Escluse le spese correnti, il dipartimento di Energia si autofinanzia con una cifra compresa fra i sei e i sette milioni di euro all’anno, di cui circa il 50% è destinata alle fonti rinnovabili.”
Tuttavia, anche se rispetto al panorama italiano l’Ateneo milanese resta un privilegiato quanto a “dote” finanziaria, il confronto (inevitabile) è con quanto succede fuori dei confini nazionali. “All’estero i finanziamenti sono nettamente maggiori. Certamente a livello pubblico e, probabilmente, anche privato. Parliamo del doppio o del triplo rispetto a quanto percepisce il sistema universitario italiano. Il punto è che in Italia esiste una grande concentrazione di player industriali che, tranne lodevoli eccezioni, non hanno molta attitudine a finanziare la ricerca.”
Per contro le università, a corto di fondi, hanno molto raramente laboratori attrezzati in grado di suscitare l’interesse dei big. Quasi un circolo vizioso dal quale sembra difficile uscire. “Si pensi poi che, mentre vengono annunciate nuove centrali, in Italia mancano docenti, ricercatori e ingegneri nucleari” dice il professor Marco Ricotti, vicedirettore del dipartimento Energia. “Rispetto ai primi anni 80, quando si laureavano circa 250 studenti a stagione, oggi raggiungiamo appena i 100 laureati all’anno. Un numero incapace di soddisfare le nuove esigenze prospettate dalla ripresa del nucleare, poiché il mercato interno ed estero ne richiede molti di più.”
Un quadro generale non proprio confortante dunque. Tanto più che, è perfino banale sottolinearlo, per produrre ricerca di qualità serve competere sul mercato dei cervelli. E per attrarre e laureare studenti di primissimo livello occorrono maggiori investimenti nel settore. A peggiorare la situazione si aggiunge l’eccesso di burocrazia, uno dei mali endemici italiani. Che condiziona prima di tutto lo sviluppo del sistema industriale. I fondi sono pochi e arrivano, quando arrivano, con enormi ritardi. I progetti hanno così difficoltà a partire e a concludersi. Nel programma Industria 2015 l’erogazione di fondi è attesa da oltre un anno. “E questo nonostante il Politecnico sia arrivato primo e secondo con due progetti sull’efficienza energetica. Impossibile per noi effettuare gli investimenti necessari e portare a destinazione i progetti” commenta amaramente Macchi. Insomma, difficile in queste condizioni competere con l’estero, anche per un centro che fa della qualità il suo brand. Il Master Ridef del Politecnico è tuttavia un successo riconosciuto. “Da circa sette anni formiamo almeno 40 specialisti all’anno nel settore delle rinnovabili”.
Bruno Pampaloni