Cosa succederebbe se il mondo bloccasse l’off-shore petrolifero? Intervista a Mario Camarsa
Il disastro ecologico che si sta consumando nel Golfo del Messico ha portato, sui media di tutto il mondo, le immagini dell’enorme macchia di petrolio che minaccia le coste della Louisiana e della Florida. Ma cosa è successo esattamente e cosa è concretamente possibile fare per contenere la marea nera che continua a fuoriuscire dal pozzo sottomarino?
Ne abbiamo parlato con l’Ing. Mario Camarsa, Direttore, per diversi anni, della Divisione Ricerche di Esso in Europa ed ex Presidente di Enstrat International, società di consulenza in campo energetico e ambientale che ha fornito supporto alla Banca Mondiale e alla Banca di Sviluppo Asiatico per i problemi dei paesi in via di sviluppo.
D) Ing. Camarsa, il presidente di Bp America Lamar McKay ha dichiarato che saranno necessari tra i 6 e gli 8 giorni perchè sia attiva la “cupola di contenimento” che gli esperti della Bp hanno ideato e fabbricato con l’obiettivo di ingabbiare la fuoriuscita dal pozzo. Una cosa difficilissima a quanto dice il presidente: “E’ come fare un’operazione a cuore aperto condotta a 1500 metri di profondità, al buio e con sottomarini telecomandati”. Può spiegarci meglio in cosa consiste questo intervento e che chances di successo potrà avere?
R) Premetto che la tecnologia della cupola di contenimento è stata sempre utilizzata, in passato, per interventi di entità minore. Qui siamo di fronte a qualcosa di enorme, senza precedenti. Il meccansimo è semplice: il petrolio esce a grande pressione ed essendo più leggero dell’acqua viene spinto verso l’alto. La cupola deve essere grande abbastanza per non disperdere il greggio e deve essere collegata ad un condotto che lo pompi in superficie, nelle petroliere. A quanto mi risulta questo sistema non è mai stato sperimentato con una quantità tale di petrolio in fuoriuscita. C’è sicuramente un problema di efficienza: il sistema non consentirà infatti di ingabbiare il 100% del greggio, anche perchè stiamo parlando di un pozzo a 1500 metri di profondità, dove il petrolio sgorga ad una pressione superiore alle 150 atmosfere. Quando questi incidenti avvengono in superficie il petrolio esce sottoforma di colonna sottilissima, perchè l’aria non crea impedimento, ma quando picchia a quella velocità contro un muro d’acqua tende a disperdersi e il lavoro della cupola diventra estremamente difficile.
D) Uno degli interventi complementari, al vaglio degli esperti, sembra essere la trivellazione di un pozzo laterale. Può essere una valida soluzione?
R) Questa è la tecnologia tradizionale, soprattutto per i pozzi in superficie. Tutti ricorderete i pozzi incendiati da Saddam Hussein al termine della guerra in Kuwait: erano centinaia e in pochi mesi sono stati ripristinati scavando un pozzo laterale inclinato che andasse ad incidere sul condotto prima del punto dell’esplosione. Questo in terra si fa in 2 o 3 giorni. Qui, di nuovo, il problema è la profondità, per cui il lavoro deve essere svolto da mini-sottomarini robotizzati – tecnologie costosissime e non ancora pienamente sperimentate, che potrebbero impiegare anche dei mesi.
D) Nel frattempo continueranno a fuoriuscire, secondo le stime, circa 5.000 barili al giorno di petrolio. Qualche giorno fa si diceva che erano 1.000. E’una cifra destinata a salire?
R) Solo Bp può sapere quant’è la portata massima del proprio pozzo, che dipende dalle caratteristiche specifiche. E’possibile che le stime iniziali tenessero conto del funzionamento, seppure parziale, della valvola di sicurezza obbligatoria, che invece non ha funzionato.
D) A suo avviso ci sono stati – come lamentano in molti – ritardi e inefficienze nell’intervento (che rischiano di causare un disastro ambientale tra i maggiori nella storia degli Stati Uniti) o si è fatto tutto quello che era tecnicamente possibile fare in questi casi (agenti chimici, reti di contenimento, batteri “mangia-petrolio” ecc.)?
R) Ovviamente si può sempre “fare di più”, ma la situazione, in questo caso, non aiuta. Per quanto riguarda i sistemi di contenimento meccanici, i bumps (le reti) si deve tener presente che sono galleggianti alti 20 cm. Ma con le condizioni meteo dei giorni scorsi, il vento e le grandi onde, servono ben poco! Per quanto, inoltre, ogni piattaforma abbia le sue procedure di sicurezza in caso di incidente, che prevedono l’impiego di uomini e materiali – i primi da addestrare, i secondi da tenere in perfetto ordine - in nessuno caso si tengono ad immdiata disposizione 80 km. di reti, come quelli già posati. Avete presente cosa significherebbe in termini di costi fissi?
D) Come si può agire invece nei confronti della parte “pesante” del greggio, quella che si deposita rischiando di danneggiare l’ecosistema del fondale?
R) In questo caso vengono utilizzati i cosiddetti batteri “mangia-petrolio”, che sono degli organismi naturali che si nutrono di idrocarburi, il cui numero può essere aumentato immettendone nell’area dell’incidente. Ma i batteri funzionano su un arco di tempo molto lungo. Nel caso dell’incidente Exxon Valdez ci sono voluti 10 anni per ripulire le coste. Poi ne possono passare di più prima che si ricreino la biodiversità e la catena alimentare. Restano dunque, come soluzione, gli agenti chimici, che però sono semplicemente “disperdenti“, ovvero disperdono il petrolio nell’acqua, in una superficie e su un volume maggiori, come un’emulsione. L’impatto ambientale è, in questo caso, meno evidente ma comunque pesante. Un’altra ipotesi menzionata è quella di bruciare il petrolio in superficie: un rimedio assolutamente da non adottare perchè peggiore del problema che tenterebbe di risolvere! Nessuna compagnia petrolifera responsabile brucerebbe il greggio sulla superficie marina, innanzitutto perchè si inquina l’atmosfera e, in secondo luogo, perchè non si può sapere esattamente quali siano i prodotti (e i veleni) della combustione del greggio. Tenete presente che nel greggio sono presenti 2000/2.500 idrocarburi diversi. Basti pensare che distillandolo si ottengono comunemente il gas, il gpl, la benzina, il gasolio, l’olio combustibile, i bitumi, i lubrificanti. Le molecole sono mischiate e vanno poi separate, ma sono tutte lì dentro. E bruciando il greggio si bruciano gli asfalteni e altre componenti che rischiano di essere molto pericolose.
D) Cosa dunque non ha funzionato nella piattaforma nel Golfo del Messico e come è potuto succedere questo incidente?
R) Le esplosioni dei pozzi sono rare però ogni tanto succedono, perchè nessuno sa esattamente cosa ci sia dentro un pozzo, malgrado ci siano prospezioni geologiche sempre più accurate, che sanno rilevare l’ampiezza del giacimento, la profondità e la presenza di gas mescolato al petrolio. Ogni tanto si incappa però in una tasca di gas a pressione molto più alta del previsto e questo crea dei problemi. Per questo in ogni condotto ci sono delle valvole di sicurezza che, di solito, per piccole contro-pressioni ed esplosioni funzionano. L’esplosione nel Golfo del Messico deve quindi essere stata particolarmente violenta e probabilmente ha danneggiato anche la valvola di sfogo. Ma questo si potrà capire solamente analizzando i dati tecnici rilevati. Le cause dell’esplosione sono in ogni caso da ricercarsi dentro il giacimento stesso.
D) Quante sono le piattaforme off-shore nel mondo e qual è la frequenza degli incidenti?
R) In questo momento non ho il numero esatto ma sicuramente più di mille. Gli incidenti sono molto rari ma, come dicevo, succedono. Nessuno può garantire il contrario, per quante tecnologie vengano impiegate. Le piattaforme off-shore non sono tuttavia meno sicure dei pozzi a terra, anzi, si prendono più precauzioni. Nella mia esperienza quarantennale nel mondo petrolifero non ricordo un altro incidente di questa portata e con una tale fuoriuscita di petrolio. Credo abbia sorpreso tutti gli operatori del settore.
D) Bp non ha dunque particolari responsabilità? Il presidente Obama sembra aver dichiarato il contrario…
R) Quello che si può discutere è se non fosse possibile contenere meglio la perdita, ma solo la commissione d’inchiesta al lavoro potrà giudicare se ci sono state delle mancanze nelle opere di prevenzione. E sono sicuro che il Governo americano sarà molto pignolo. Questo incidente dovrebbe servire da lezione, per valutare se non sia il caso di investire maggiormente nella preparazione del personale e dei materiali, non solo per incidenti ordinari, ma anche per casi straordinari. Questo significa però andare a incidere significativamente sui prezzi dell’estrazione off-shore, tanto da non rendere più profittevole l’operazione.
D) Come giudica la decisione del presidente Obama di sospendere tutte le trivellazioni off-shore nel Golfo del Messico?
R) E’ un gesto dovuto. Lasciando da parte le motivazioni politiche, si tratta di una necessaria opera di controllo e verifica, per valutare se le compagnie operanti in quell’area – così importante per l’economia americana – hanno effettivamente adottato tutte le misure preventive necessarie. Vorrei però fare una considerazione più ampia. La stragrande maggioranza dei giacimenti petroliferi scoperti negli ultimi trent’anni si trova off-shore. Una percentuale verosimilmente intorno al 20% dell’attuale produzione petrolifera. Fermare questa parte della produzione per evitare il rischio – per quanto remoto – di danni ambientali può essere un’opzione, ma bisogna averne ben chiare le conseguenze. Sappiamo bene cosa succede ai prezzi del barile quando la prduzione subisce variazioni del 5/10%, provi a pensare cosa succederebbe, in termini di impatto sull’economia, sull’industria e sui trasporti, nel caso di una sospensione del 20%. Per controbilanciare il fabbisogno, a parità di fonti, l’Arabia Saudita dovrebbe aumentare la produzione a terra per un volume tale che porterebbe all’esaurimento delle proprie risorse in 60 anni, invece del centinaio d’anni pianificato. Impensabile che decidano di farlo.
D) Le possibili alternative?
R) Si potrebbe pensare, dal punto di vista della politica ambientale, di scoraggiare gli investimenti off-shore per favorire lo sviluppo delle energie rinnovabili. Incidenti come quello attuale possono sicuramente costituire una scintilla per la riconsiderazione dei problemi ambientali e del sistema dell’energia. Ma la sostituzione dei prodotti petroliferi con tecnologie alternative richiede investimenti per miliardi di dollari.
D) Ma al di là dell’investimento necessario, è pensabile e concretamente fattibile sospendere il 20% di produzione petrolifera off-shore e sostituirla con fonti rinnovabili, attraverso un modello “diffuso”, come vorebbe ad esempio Woodrow Clark?
R) Certo. Dipende, come dicevamo, dall’orizzonte temporale e dagli investimenti. Ma il problema è politico. La produzione petrolifera europea è praticamente tutta off-shore! Per alcune nazioni, come la Gran Bretagna e la Norvegia, questa è una fonte di reddito difficilmente sostituibile. Ma anche per stati africani, come la Nigeria e l’Angola, o per alcune ex-repubbliche sovietiche come l’Azerbaijan, le cui riserve sono tutte nel Mar Caspio. Questi paesi si troverebbero a dover importare dunque l’intero fabbisogno petrolifero. Come potremmo infatti sostituire, in tempi brevi, il combustibile per le navi, per gli aerei, per l’intero parco macchine? Questo resta il grande problema da risolvere. E non è un problema solamente tecnico, ma di interessi nazionali.
Andrea Gandiglio