Il biologico del Castello di Stefanago, tra vini naturali e “volpi spaziali”
Dal 1700 coltivano in armonia con la natura. La famiglia Baruffaldi da generazioni abita e cura i frutti della terra nell’Oltrepo Pavese e produce vino naturale, “oltre il biologico” (come tengono a ribadire) con il marchio Castello di Stefanago, che prende il nome dalla stupenda tenuta a Fortunago. ”In realtà abbiamo sempre fatto così, questa è la nostra filosofia produttiva. Negli anni ’90 è poi arrivata la possibilità della certificazione biologica e abbiamo aderito”.
Giacomo Baruffaldi completa il pensiero, perché non sia solo uno slogan, sottolineando che la “legge sul biologico è un compromesso”. Al ribasso, fa intendere. Ma nella loro tenuta, con quello che chiamano “vino naturale” si va oltre: “La solforosa è concessa dal disciplinare biologico fino a 150 milligrammi per litro, noi al massimo tocchiamo i 40! La definizione di vino naturale è ben più restrittiva rispetto alle norme della legge del biologico. Noi aderiamo all’associazione VinNatur, che raggruppa le aziende che lavorano al naturale assumendone le regole”. Un manifesto di politica agricola: “L’associazione intende preservare l’individualità del vino dall’omologazione chimica che tecnologia e industrializzazione hanno portato nelle attività vitivinicole”.
Chiarissimo. Ma i Baruffaldi non sono dei “fondamentalisti rurali” che viaggiano su binari ideologici, sanno che il vino deve piacere, non è pura filosofia. E il loro vino, accudito con questo spirito quasi paterno, piace – ai consumatori e ai critici.
“La nostra azienda si estende su 140 ettari in un unico corpo, ma solo 20 ettari sono dedicati a vigneti, poi sono boschi, siepi, seminativi, in un equilibrio assoluto e a favore della biodiversità. La natura si auto difende senza bisogno di intervenire forzatamente con la chimica”, spiega Giacomo “l’umanista” di famiglia, mentre il fratello Antonio è agronomo ed enologo e la sorella Antonietta cura i rapporti con i clienti.
Il successo di questa azienda è proprio nelle radici, nelle tradizioni e nei legami familiari con i luoghi di produzione: “Siamo qui da generazioni, viviamo il territorio e questo ci permette di conoscerne la capacità produttiva e sapere dove poter impiantare e dove evitare di farlo”. “Il vino si fa nel vigneto“, ricorda Giacomo parlandoci di un lavoro in vigna molto più attento del “convenzionale”, dove la tutela dell’ambiente è condizione necessaria.
Il mercato di Castello di Stefanago oggi è soprattutto estero, per l’80%. “In Italia l’attenzione per questi vini ha iniziato a manifestarsi solo da un paio d’anni. Il Giappone invece assorbe molto vino naturale e un altro mercato importante è quello USA, cosi come quello francese. I francesi sono clienti importanti: il nostro patrimonio genetico è superiore, ma loro hanno tanta cultura del vino. I nostri vini finiscono soprattutto a Parigi, e qui le nazionalità dei clienti sono infinite…”.
Giacomo è comunque ottimista anche sul futuro del mercato italiano. “Sono sempre positivo, c’è un buon trend di crescita, continuiamo a investire. Credo molto nel mercato domestico, stiamo creando una nostra piccola rete di vendita che è in contino divenire: abbiamo iniziato a Roma e ora stiamo arrivando anche a Milano, dove si assiste ad una sorta di boom. Complice anche una certa ‘moda del vino’ che ha diffuso la cultura enologica a livelli mai visti prima. Paradossalmente è merito degli scandali alimentari che hanno aumentato la vigilanza, l’attenzione, la ricerca di un prodotto sano”.
Ma il futuro dell’azienda di famiglia viaggia anche nelle mani delle nuove generazioni. C’è Carlotta, figlia di Giacomo, con studi all’Accademia d’Arte, che si occupa di valorizzare artisticamente i prodotti del Castello. E poi Jacopo, che ha allargato il tiro e insieme ad Ambrogio produce birra cruda artigianale con il marchio Stuvenagh. Sempre nei terreni della tenuta di famiglia e sempre con la stessa filosofia: “La scelta di produrre birra – ci racconta – è nata molti anni fa ma realizzata solo dal 2014. I cereali che coltiviamo in azienda sono l’orzo, che utilizziamo come base per la nostra birra e i grani antichi da panificazione, poi aromi come coriandolo, zenzero e luppolo. Coltiviamo tutto senza l’utilizzo di prodotti chimici e rispettando ritmi naturali e biodiversità, uno degli obiettivi primari è la chiusura di filiera, che ci permetta di utilizzare materie prime nostre e sane. Al momento nella birra utilizziamo già il 50-60% di filiera locale, mentre i malti speciali arrivano da Germania e paesi anglosassoni. L’anno scorso abbiamo piantato le nostre prime piante di luppolo, ma purtroppo la siccità le ha uccise, ci riproviamo quest’anno sperando vada meglio“.
Da questa tenacia nascono birre a bassa gradazione dai nomi fantasiosi, ottime per la calura estiva, come la Lady Von Baiten “birra di segale da soma”, o la Duca di Cavedania, “birra gialla da bere a palla” o ancora la Volpe Spaziale, una IGA (Italian Grape Ale) che utilizza tra gli ingredienti il mosto d’uva e chiude il cerchio che unisce la tradizione vinicola di famiglia con la nuova avventura birraia.
Gian Basilio Nieddu