Cucinare? Materia per designer. La nuova didattica del PoliTO contro lo spreco alimentare
Cos’è un alimento? Cosa significa cucinare? Fondamentalmente il corpo umano è una fabbrica chimica. Ingerisce elementi variamente composti e ne espelle altri dopo un processo metabolico. Cucinare è un modo per esternalizzare una parte di questi processi. Significa che appaltiamo al calore dei fornelli l’incarico di svolgere alcune trasformazioni fisico-chimiche per facilitare al corpo il compito di scomporre le sostanze ingerite in carboidrati, proteine e grassi, gli elementi base di cui ci nutriamo.
In verità nutrirsi e cucinare, per ognuno di noi, sono esperienze non riducibili alle trasformazioni fisico-chimiche. Tra il crudo e il cotto passa la distinzione tra natura e cultura, tra l’uomo animale e homo sapiens, ma la storia che sto raccontando riguarda un modo laterale di trattare il cibo, di affrontare la questione dello spreco di risorse e la necessità di ampliare la nostra conoscenza.
In particolare, al Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino, si sono chiesti cosa può fare un designer per migliorare il modo in cui trattiamo il cibo. Secondo l’approccio sistemico – quello promosso dal corso di laurea in Design e Comunicazione Visiva – un designer di oggi, oltre a disegnare oggetti è, sempre di più, qualcuno che ridisegna processi, cioè cicli di vita della materia. Siccome la materia cibo è altamente deperibile e in Occidente, ci dicono le ricerche, ne sprechiamo tanto (circa il 40%, dalla raccolta fino al piatto), allora perché non cercare di capire meglio cosa avviene in questo processo?
Da queste riflessioni è nato il progetto di miglioramento della didattica FFWD (Fighting Food Waste Design), a cura di Paolo Tamborrini e Cristian Campagnaro (professori associati presso il Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino), in collaborazione con Sara Ceraolo (borsista di ricerca presso lo stesso dipartimento). Il progetto prevede un ciclo di workshop, esperienze pratiche e seminari, che portino gli studenti ad approfondire il tema della lotta allo spreco alimentare secondo un’ottica progettuale e sistemica e attraverso una pratica interdisciplinare. Alcune delle esperienze proposte sono molto semplici, come fare il formaggio partendo dal latte, oppure il sapone utilizzando l’olio, ma l’aspetto interessante è che l’esperienza è finalizzata a far conoscere agli allievi, concetti e nozioni che altrimenti, all’interno della propria disciplina non potrebbero mai conoscere e con cui, dunque, non potrebbero mai confrontarsi. I workshop sono solo la prima fase di un progetto che prevede di individuare dei borsisti che avranno il compito di approfondire le conoscenze e, contemporaneamente, di divulgare quanto hanno sperimentato. FFWD prevede inoltre l’acquisto di kit di cucina per trasformare e trattare il cibo, anche in eventi che potranno svolgersi fuori dalle aule.
Uno dei workshop di FFWD a cui ho assistito è stato articolato in quattro incontri, in collaborazione con l’Ing. Debora Fino, professore ordinario del DISAT. In un laboratorio del Dipartimento di Scienze Applicate e Tecnologia, Tonia Tommasi, ricercatrice ed ingegnere ambientale, ha mostrato come con due frullatori, un misuratore di pH, qualche chilogrammo di cibo avariato, batteri prelevati dai fanghi di depurazione, si possano ottenere bioidrogeno e biometano in quantità maggiore di quanto consente invece la semplice produzione di biogas. Il trucco appare semplice: in una prima fase, si frulla il cibo (meglio se già in via di decomposizione) poi, per far sì che il frullato sia di gradimento per i microrganismi che dovranno scomporlo, si aggiunge soda caustica. Per produrre bioidrogeno ci vogliono determinati batteri, diversi da quelli che occorrono per produrre biometano. Se vogliamo che i primi lavorino in pace, basta aggiungere acido cloridrico, riducendo così il pH. In questo modo i batteri responsabili della trasformazione in biometano muoiono, mentre i batteri responsabili della produzione di bioidrogeno si trasformano in spore, pronte a riattivarsi appena il pH ridiventa normale. Questo è il passaggio che consente la produzione di bioidrogeno. Quello che rimane dell’impasto di cibo sono acidi grassi volatili, che peraltro è il cibo preferito dai batteri che producono metano. Basta a questo punto inoculare nuovamente dei batteri presi dai fanghi di depurazione per far ripartire la trasformazione, stavolta in biogas.
In una centrale a bioidrogeno e biometano, grazie a questo doppio ciclo, sarebbe possibile ottenere il 5% di energia in più rispetto a quanto si può ottenere da una normale centrale a biogas. Dico sarebbe perché ora bisognerà capire se a livello industriale il gioco vale la candela. Ma sono anche altre le considerazioni sul tavolo: la prima è che si tratta di impianti capaci di utilizzare insieme gli scarti alimentari provenienti da flussi urbani e i reflui zootecnici, che normalmente seguono percorsi separati; la seconda è che si tratta di realizzare una centrale con due reattori più piccoli, più facili da controllare, e il costo dell’impianto sarebbe globalmente inferiore; la terza considerazione invece è critica, e riguarda l’idrogeno, che ha ancora problemi di stoccaggio, benché presenti il vantaggio di non produrre CO2 quando viene utilizzato.
Non è ancora chiaro cosa faranno i giovani ingegneri e designer della conoscenza acquisita in un workshop come questo. Quel che appare chiaro, però, è che se si vogliono disegnare processi sistemici, sostenibili, e finalizzati a ottimizzare la capacità dei sistemi urbani di metabolizzare le risorse utili a vivere e prosperare, avranno bisogno di interrogarsi su tutti i passaggi che fa, o che potrà fare, la materia. Un cambio di approccio radicale, molto più impattante di ogni singola innovazione e di ogni nuova scoperta.
Antonio Castagna