“Basta indossare gli abiti al contrario”. La fashion revolution di Marina Spadafora, stilista della moda etica
Una maglietta o una bella gonna, ma buone per l’ambiente e i diritti dei lavoratori. Ovvero etica ed estetica. E’questa, in sintesi, la filosofia che anima Fashion Revolution Week, la campagna internazionale che fino al 30 aprile vuole sensibilizzare opinione pubblica, consumatori e politici per un futuro più sostenibile nella moda. Che, in concreto, significa maggiore trasparenza lungo tutta la filiera.
La battaglia, che si combatte contemporaneamente in 90 Paesi nel mondo, ha preso il via in Gran Bretagna grazie alle attiviste del fair trade Carry Somers e Orsola De Castro dopo la strage di Rana Plaza a Dhaka, in Bangladesh, dove il 24 aprile 2013 morirono 1.133 operai e operaie, oltre a 2.500 feriti, per il crollo dello “stabilimento” tessile, in realtà una struttura fatiscente e pericolosa, dove tutti lavoravano in condizioni disumane.
In Italia sono in prima linea, in questa battaglia, Altromercato e Actionaid con il coordinamento della stilista Marina Spadafora:“Il messaggio che vogliamo lanciare è che la rivoluzione si può fare anche con il portafoglio. La busta della spesa è il potere del consumatore che può decidere come far girare il mondo perché se l’ industria va contro i miei principi etici attraverso le mie scelte di consumo posso togliere ossigeno al loro business”. Partecipare è facile: “Basta indossare gli abiti al contrario, con l’etichetta bene in vista, fotografarsi e condividere le foto attraverso i social con l’hashtag #WhoMadeMyClothes, taggando i grandi marchi della moda e condividendo le loro risposte”.
Figlia di imprenditori tessili di Bolzano, la Spadafora ha studiato fashion design a Los Angeles e lavorato a lungo a Hollywood come costumista. Negli anni ’90 ha venduto l’azienda di famiglia e collaborato con Ferragamo, Prada e Miu Miu, diventando una vera autorità del settore, dove si contraddistingue per il lavoro con Altromercato e il suo progetto di moda etica Auteurs du Monde, di cui è direttrice creativa. Un programma per dare valore e diritti agli artigiani che le è valso il premio ONU “Women Together Award”.
L’obiettivo dell’eretica Marina è però quello di uscire dalla gabbia dorata del fashion per allargare il cerchio delle persone consapevoli: “Non possiamo sempre parlarci addosso tra di noi. Dobbiamo coinvolgere tutte le persone che non sanno nulla di fair trade e delle nostre battaglie“. Ovvero c’è da produrre seguito. Per questo la stilista ha voluto coinvolgere un altro nome noto della moda italiana: Antonio Marras. “Per il 27 aprile ho organizzato un evento a NonostanteMarras, il suo concept store milanese, così facciamo un salto di qualità per raggiungere un pubblico più ampio! La mia amica Lella Costa si esibirà in un monologo dedicato al ruolo dell’industria della moda nella rete economico-sociale globale e saranno dei nostri alcune realtà virtuose come Cangiari, Lablaco, Le Club Eco, Teeshare e Wråd“. Alla campagna hanno inoltre aderito come testimonial le attrici Amanda Sandrelli e Stefania Rocca, la scrittrice Chiara Gamberale, la chef Cristina Bowerman, la conduttrice televisiva Eleonora Daniele, il musicista e conduttore radiotelevisivo Alex Braga.
Il dubbio che sorge spontaneo, in questi casi, è che “sensibilizzazione” ed eventi social ad alta visibilità mediatica attirino i marchi con una logica di greenwashing, che si traduce spesso in una mera patina di green per buona visibilità.”Il problema esiste – ammette Marina - ci sono aziende che fanno attività spot, una bella iniziativa e poi l’anno dopo non ne vogliono più sapere. La sostenibilità, invece, è continuità“. Ben vengano dunque le contromisure come “l’indice di trasparenza, che calcoliamo attraverso un questionario dove chiediamo alle aziende di esplicitare la filiera. Vogliamo capire se conoscono e controllano i loro fornitori. In questo modo è possibile elaborare un ranking che incide sulla reputazione aziendale. Funziona. Faccio un esempio: Gucci non aveva risposto, poi mi hanno cercato loro, quasi inseguita per essere analizzati!”. Si ritorna al “potere al consumatore“, concetto che la stilista ha esplicitato in un Ted Talk.
In concreto queste iniziative hanno anche permesso, tra le altre cose, di “far adottare una direttiva al G7 affinché le aziende costituiscano un fondo dedicato a risarcire le vittime di eventuali incidenti. Per quelle del Rana Plaza è stato un calvario. In Cambogia si è riusciti a far aumentare la paga minima degli operai”. La difesa dei diritti – tassello fondamentale per facilitare la sostenibilità ambientale – oltre ai lavoratori, spazia però anche ai piccoli imprenditori: “Quando si lavora con il fair trade, si anticipa una parte dei soldi. Se, per esempio con Altromercato, ordiniamo 100 camicie di cotone, paghiamo subito il 50% e il saldo alla consegna della merce. In questo modo riescono a lavorare senza ricorrere a pesanti o a volte impossibili strumenti di finanziamento”.
Quindi si può fare, si può innestare un ciclo virtuoso anche nella moda e come ama ripetere Spadafora “tutto parte dal consumatore. E’ necessario un gran lavoro di sensibilizzazione per far capire che è preferibile comprare meno, ma prodotti di qualità. Evitando così di intasare le nostre discariche con la fast-fashion. In questo modo si fa bene all’ambiente, si paga il giusto valore al lavoro e poi un prodotto di qualità dura di più”. Meglio cioè una maglietta da 25 euro che dura 10 anni, piuttosto che 5 a 5 euro.
Gian Basilio Nieddu