“Sulla via dell’orso”: un avvincente viaggio verso la wilderness, tra uomo e natura
Pubblicato a due anni dal caso dell’orsa Daniza – che ha riaperto il dibattito sulla convivenza tra l’uomo e il grande carnivoro reintrodotto vent’anni fa - “Sulla via dell’orso” (Idea Montagna Editore, pp. 208, 15,00 €), di Anna Sustersic e Filippo Zibordi, è un avvincente viaggio nella “wilderness” del Trentino Alto Adige, alla scoperta di una realtà unica ed emblematica nel panorama della conservazione ambientale europea. Paura, bellezza, imprevedibilità, forza, ferocia: l’orso incarna simboli e significati profondi che l’uomo ha cercato, nel corso della storia, di eradicare dal proprio ambiente e dalla propria anima, ma che oggi sente la necessità di recuperare. L’opera di Sustersic e Zibordi, vincitrice del XXXIV Premio Gambrinus “Giuseppe Mazzotti” (nella sezione Ecologia), è un racconto che tesse frammenti di realtà, raccoglie le voci di chi l’orso lo ha reintrodotto, di chi ci convive quotidianamente, di chi lo interpreta dal punto di vista psicologico, antropologico (anche religioso), di chi lo teme, ma anche di chi lo cerca con passione. Un percorso alla ricerca del senso complesso che la convivenza con le altre specie ha per l’uomo di oggi. Per la rubrica “Racconti d’Ambiente” pubblichiamo un estratto dell’Introduzione.
Mi fermo. Uscita dall’angusto e opprimente passaggio che separa il Canale di Brenta dalla Valsugana, ho bisogno d’aria e di sgranchirmi un po’. Sono in viaggio da oltre tre ore, spese a ripercorrere nel dettaglio le ragioni che mi hanno spinta a intraprendere questo viaggio, che dal mare mi porta al regno delle Dolomiti.
Arrivo da una zona di confini: geografici, culturali, religiosi. Sono partita dalla regione dove l’imponente nervatura della penisola balcanica, le Alpi Dinariche, tocca il margine sudorientale delle Alpi, con il Carso che fa da cuscinetto tra l’Europa occidentale e la sorella orientale.
Arrivo da un paesaggio di mare, e di cime erose e smussate di calcare pallido che affiora ovunque, di terreni magri dove stentano ornielli, carpini e roverelle, da un sottosuolo di misteriose bellezze, in parte esibite e in parte custodite da una chimica gelosa. Ho lasciato le Prealpi slovene, dove la parola gozd, “foresta”, conserva intatto il suo significato, dove orsi e lupi non hanno mai smesso di popolarne le notti e contendersi con l’uomo il territorio. Paesaggi differenti da quelli che mi trovo di fronte ora, la cui evoluzione ha seguito e ancora segue percorsi differenti.
Lasciata l’aria tiepida del mare, sono immersa in una frizzante mattina di maggio: ormai la primavera tarda ad arrivare, quanto l’autunno a sbiadire i fianchi delle montagne. Alzo gli occhi risalendo con lo sguardo i versanti alla mia sinistra; in alto, intuisco, si apre quello che Paolo Rumiz ha definito un mondo a sé col suo labirinto di pascoli lontani dal mondo. Il confine boscoso che separa Veneto e Trentino: l’antico regno dei Cimbri, custodito dalle imponenti foreste che coprono l’altopiano di Asiago, i Sette comuni. Dal lato opposto della valle fra antichi castagni, faggi e abeti troneggia la torre di Castel Telvana, elegante sentinella medioevale che vigila sul via vai della valle. Sono in Trentino, meta e principio del mio viaggio. […]
[…] Recita il Servizio Forestale degli Stati Uniti: la natura selvaggia è sia una condizione geografica, sia uno stato d’animo; fa parte dell’eterno anelito alla verità che spinge l’uomo alla continua ricerca di se stesso e del suo creatore. È un termine che accoglie gli estremi: pace e agitazione, paura e fiducia, aggressività, mitezza, ferocia, tenerezza. L’essere selvaggio è il rappresentare la vita per quello che è: un’inquietante, perfetta accozzaglia di opposti che possono esprimersi in un paesaggio, in un solo essere vivente o anche nello spirito umano in quella porzione che, confondendo il controllo con la sicurezza, l’uomo ha metodicamente cercato di smussare da se stesso.
Ed è proprio di questo che sono venuta alla ricerca qui in Trentino: di quello che ha l’aspetto di un nebuloso desiderio, di mancanza fisica di qualcosa che è andato perduto. Una wilderness sì, ma non quella magnifica e aspra delle cime del Lagorai, ma una dimensione di “selvaggio” più sottile e meno dichiarata che può esprimersi anche in un solo animale che, a sostituzione dello spazio ne incarna tutte le qualità, o nello spirito dell’uomo, in quella sua parte ripudiata e recisa, quella dimensione rara e coraggiosa, sbiadita al limite dell’oblio, che oggi queste valli hanno deciso di recuperare. […]
Anna Sustersic* e Filippo Zibordi**
*Anna è nata a Trieste ma nel 2013 si è trasferita in Trentino dove si occupa, come freelance, di racconti di natura e paesaggio; collabora con realtà del territorio quali musei, comuni, case editrici, e con diversi blog tematici. Di ambiente e natura si è occupata da studente, laureandosi a Trieste in Scienze Ambientali, da educatore, lavorando in Riserve Naturali di mare e di monte, da volontario essendo membro della Commissione Tutela Ambiente Montano della SAT di Trento e professionalmente come giornalista pubblicista.
**Filippo, nato a Milano, dove si è laureato in Scienze Naturali, si è trasferito in Trentino per occuparsi di fauna e divulgazione ambientale (oltre che per vivere tra i monti). Da più di un decennio collabora con enti e organizzazioni, soprattutto aree protette alpine, nell’ambito di progetti di ricerca e conservazione degli animali delle Alpi e della natura in generale. Giornalista pubblicista, affianca l’attività tecnica a quella di divulgazione in campo scientifico ed ambientale.