“Grande mondo, piccolo pianeta”. La vita interconnessa ai tempi dell’Antropocene
Per la rubrica “Racconti d’Ambiente” pubblichiamo oggi, in collaborazione con ZEST Letteratura Sostenibile, un estratto del saggio di Johan Rockström “Grande mondo, piccolo pianeta. La prosperità entro i confini planetari” (Illustrazioni di Mattias Klum, Edizioni Ambiente, 2015, pp. 232, 25 euro), dedicato alla necessità, la possibilità e le opportunità offerte da un nuovo paradigma di sviluppo: quello, come dice il sottotitolo, dell’abbondanza nell’ambito dei confini planetari. La recensione del libro è disponibile su questa pagina di ZEST.
Nella nuova epoca che abbiamo creato, l’Antropocene, non basta essere consapevoli del fatto che stiamo esercitando delle pressioni colossali sulla Terra, e sui nove confini planetari che abbiamo individuato. E non basta nemmeno sapere che quello che accade a livello locale influisce direttamente sul livello globale, e che, allo stesso modo, i cambiamenti a scala globale impattano sui problemi locali. Dobbiamo anche riconoscere che, quando si superano dei punti di svolta, tutte queste interazioni tra scale diverse possono dare esiti imprevisti.
Non molto tempo fa, l’Unione Europea decise per esempio di rivedere le sue politiche sulla pesca per allontanare dalle sue acque territoriali le flotte di pescherecci ipertecnologici. Pochi leader politici avrebbero potuto immaginare che questa decisione avrebbe dato il via a una sequenza di eventi potenzialmente associata con la peggiore esplosione del virus Ebola. In risposta alle quote più rigide imposte dall’Unione Europea, le flotte internazionali si spostarono al largo delle coste dell’Africa occidentale, dove esaurirono gran parte degli stock ittici locali. Si trattava delle stesse zone dove il cambiamento climatico, l’inquinamento e la pessima gestione delle riserve ittiche avevano già danneggiato le foreste locali di mangrovie, le praterie sottomarine e le barriere coralline. Come risultato, i pescatori africani dovettero fronteggiare un rapido crollo dei livelli del pescato, e per nutrire le loro famiglie iniziarono a consumare la carne di animali selvatici. Gli schemi del commercio locale cambiarono di conseguenza, con i cacciatori che uccidevano sempre più animali come gli scimpanzé, che sono possibili veicoli di zoonosi come il virus Ebola. È possibile che l’epidemia del 2014 di Ebola in Liberia, Sierra Leone, Senegal, Guinea e Nigeria sia iniziata quando un bambino ha toccato la carne macellata di un animale selvatico che aveva contratto il virus. Potrebbe aver diffuso la malattia via via che il contagio rimbalzava in varie parti del nostro mondo interconnesso, in cui non è più possibile separare le aule legislative dell’Unione Europea dalle foreste dell’Africa occidentale.
La Primavera araba del 2010-2011 è stata preceduta da una catena di eventi che nessuno ha saputo prevedere. Tutto è cominciato con una feroce ondata di calore in Russia, con incendi così vasti e una siccità così pronunciata da indurre il primo ministro Vladimir Putin a limitare le esportazioni di grano e di altri cereali. Anche Kevin Rudd, primo ministro australiano, adottò una misura simile, dopo che il suo paese era stato colpito da una dozzina di anni di siccità. Questi due eventi si intrecciarono con un’ondata di speculazioni sui mercati mondiali, e portarono a un’impennata dei prezzi globali del cibo. Come se non bastasse, il prezzo globale del fosforo, elemento chiave per i fertilizzanti agricoli, era triplicato, e il prezzo del petrolio era cresciuto del 100%, facendo schizzare alle stelle i costi dell’energia per gli agricoltori. Risultato? In molte città del Nord Africa e del Corno d’Africa scoppiarono rivolte per il cibo, e l’intera regione ribolliva di tensioni.
Quando Mohamed Bouazizi, un venditore ambulante tunisino, si diede fuoco per protestare contro i maltrattamenti della polizia, scoppiò una rivoluzione internazionale. Una generazione di giovani attivisti arrabbiati si ribellarono ad anziani tiranni che da decenni imponevano dittature feroci, e un paese dopo l’altro i regimi iniziarono a cadere come pedine del domino. Le rivolte urbane scatenate dall’improvviso aumento dei prezzi del cibo, causati a loro volta dal conto che la Terra aveva presentato ai mercati mondiali del cibo, si intrecciarono con la sollevazione di una giovane generazione che era cresciuta in un regime dittatoriale. Quello che era cominciato come un’ondata di calore in Russia, si trasformò in una tempesta perfetta di distruzione socio-ecologica in Africa.
Queste interazioni a lunga distanza sono una delle nuove caratteristiche dell’Antropocene. Le attività umane in una regione (come gli impianti a carbone nella Ohio Valley o le industrie a Novosibirsk) causano cambiamenti ambientali globali (come l’innalzamento delle temperature per colpa dell’accumulo di gas serra) che provocano dei guasti repentini nei sistemi che regolano il funzionamento della Terra in un’altra regione (come la fusione del ghiaccio marino nell’Oceano Artico). Il modo in cui un pendolare europeo, americano o cinese decidono di andare al lavoro adesso influenza la probabilità che le piogge diano sollievo a un contadino nel Sahel. Il modo in cui le nazioni del Sudest asiatico gestiscono le loro foreste può influire sulla frequenza delle ondate di calore in Europa o sulla capacità degli Inuit dell’Artico di cacciare sul mare ghiacciato. In più, tutte queste azioni sono accompagnate da retroazioni che amplificano ulteriormente i cambiamenti globali e creano degli impatti che rimbalzano indietro a colpire le regioni da cui è partita la catena di eventi o, più probabilmente, altre aree che potrebbero non aver contribuito per niente al problema originale.
A causa di questa rete di interconnessioni, l’umanità nell’Antropocene deve oggi tenere conto di tutti i biomi della biosfera – ogni area terrestre o marina – quando valuta le strategie migliori per garantire la prosperità sociale ed economica delle comunità locali. In un mondo che rischia di prendere dei sonori ceffoni, ogni nazione, in realtà ogni persona, devono preoccuparsi del modo in cui, come comunità globale, gestiamo la biosfera nella sua interezza.
Johan Rockström*
*Johan Rockström è il direttore dello Stockholm Resilience Centre e professore di Sistemi idrici e sostenibilità globale all’Università di Stoccolma. Riconosciuto a livello internazionale come uno dei massimi esperti sulle questioni legate alla sostenibilità globale, guida le ricerche sui confini planetari – un approccio sempre più consolidato alla prosperità umana nell’Antropocene che è al cuore di “Grande mondo, piccolo pianeta”. Ha lavorato come consulente per vari governi, per diversi processi negoziali internazionali e per vari network di aziende. Ha pubblicato diversi libri (tra cui, con Anders Wijkman, “Natura in bancarotta”, Edizioni Ambiente, Milano 2014) e più di 100 articoli scientifici. Ha guidato la fase progettuale di Future Earth, e attualmente presiede l’Earth League, la EAT Initiative e il programma CGIAR su acqua, suoli ed ecosistemi. Nel 2009 è stato nominato “Svedese dell’anno”, e nel 2012 e 2013 è stato indicato come il cittadino svedese più influente sulle tematiche ambientali.