Rifiuti radioattivi, a gennaio la mappa delle aree idonee al deposito nazionale
- Il countdown è fissato a gennaio 2015. “A ll’inizio dell’anno presenteremo la mappa delle aree idonee ad ospitare il deposito nazionale di rifiuti nucleari“, ha dichiarato l’ad di Sogin, Riccardo Casale. “Consegneremo la mappa entro il 3 gennaio”. Questa la data in cui verrà reso noto il luogo dove sarà situato il luogo per l’ultima fase della gestione dei rifiuti radioattivi. Il deposito che nessuno vuole, dove gli scarti avranno una loro locazione definitiva, con l’intenzione di non recuperarli.
L’inizio della storia sta tutto in un anno, il 1987, quando il referendum popolare determinò la cancellazione dei programmi nucleari italiani. Oggi, dopo che la strategia di chiusura ha subito vari cambiamenti nel corso del tempo, a raccontare come si è arrivati fin qui, sono gli esperti a confronto alla Bocconi. Ospiti, il 29 settembre scorso, del convegno “La gestione dei rifiuti radioattivi” sono stati Michele Polo (Eni Chair in Energy Markets e Direttore IEFE, Università Bocconi), Riccardo Casale (Amministratore Delegato, Sogin), Fabio Chiaravalli (Direttore Deposito Nazionale e Parco Tecnologico, Sogin), Fabio Iraldo, Federico Pontoni (IEFE, Università Bocconi), Emilio Garcia Neri (International Relations Department, EnRESA) e Caterina Ghetti (Sfs Azienda Ospedaliera Universitaria di Parma).
“Dopo il 1987 – interviene Riccardo Casale – i passi fatti sono stati pochi e claudicanti”. “Nella chiusura siamo stati pionieri come per l’apertura delle centrali (Latina, ndr), il dopo però non siamo riusciti a gestirlo. Diciamo però, che se nella gestione rifiuti solidi urbani siamo in emergenza, nella gestione dei rifiuti tossico nocivi siamo in emergenza, nei rifiuti nucleari la situazione è sotto controllo e non ancora in emergenza”.
Decommissioning è la parola chiave. La “disattivazione” di un impianto nucleare è uno dei punti fondamentali da risolvere. Allo stato attuale i rifiuti radioattivi in Italia sono in deposito temporaneo presso i siti nucleari che li hanno prodotti. Questa soluzione, per usare un eufemismo, “non è ottimale” in quanto obbliga al mantenimento di presidi di sorveglianza in circa 20 diversi aree del territorio italiano per la conservazione in sicurezza; e poiché i depositi esistenti non sono stati progettati per uno stoccaggio di lungo periodo. Ne deriverebbe dunque la necessità di realizzare, in ciascun sito, nuove strutture di deposito per sostituire quelle obsolete.
“Inoltre, bisogna comunque trovare una destinazione ai rifiuti radioattivi e materiali nucleari che rientreranno dall’estero in quanto provenienti dal ritrattamento del combustibile irraggiato inviato in Inghilterra (Sellafield) dalle centrali di Latina e Garigliano. A questi si aggiungono i rifiuti radioattivi e i materiali nucleari che risulteranno dal ritrattamento in Francia (La Hague) del restante combustibile irraggiato, ancora stoccato in Italia”, precisa Fabio Chiaravalli. “C’è poi lo smaltimento dei rifiuti provenienti dalle attività mediche, industriali e di ricerca scientifica (circa 1.000 metri cubi all’anno) che attualmente vengono raccolti e trattati da ditte specializzate. Risulta quindi conveniente e urgente la realizzazione di un deposito nazionale che consentirebbe lo smantellamento degli impianti nucleari dismessi con tempi certi, la liberazione dei vecchi siti dai vincoli radiologici e la sistemazione dei rifiuti radioattivi e dei materiali nucleari in un’unica struttura centralizzata progettata e realizzata con i più moderni criteri di sicurezza. Il deposito, se tutto va bene, dovrebbe essere attivo nel 2024, un miliardo e mezzo il costo, ma sarà un grande business”, dice Chiaravalli.
E la monetizzazione dell’operazione sta dentro una precisa e incisiva analisi economica affidata ai ricercatori IEFE-Bocconi, Fabio Iraldo, Federico Pontoni e Antonio Sileo. “Nei prossimi anni, si deciderà di immobilizzare e di vincolare importanti risorse economiche su un preciso territorio per questo è necessario elaborare anche un’analisi economica”, interviene Federico Pontoni. “Il primo elemento dell’analisi economica è legato ai costi industriali dell’operazione, sia quelli relativi all’investimento, sia quelli relativi a tutta la gestione e ai ricavi. In questa fase è anche necessario elaborare delle stime sui rifiuti di origine non energetica che continueranno ad arrivare al deposito. L’investimento nel deposito e nel Parco Tecnologico saranno finanziati dalla componente A2 della bolletta. I costi di gestione del deposito, invece, saranno in parte coperti dalla componente A2, in parte dalle tariffe di conferimento degli operatori. Per il solo Parco Tecnologico, parte dei costi di gestione dovrà essere coperto da fondi ad hoc, reperiti svolgendo attività di ricerca in vari ambiti legati alla sostenibilità ambientale. Da un punto di vista finanziario, è importante capire il disallineamento fra entrate derivanti dalla A2 e tempistiche dell’investimento”, spiega Pontoni. Dal punto di vista economico sono stati proposti e resi operativi meccanismi di finanziamento per le attività di decommissioning. In Italia, come è noto, l’attuale meccanismo di finanziamento si basa su un’aliquota della bolletta elettrica (componente A2), stabilita anno per anno dall’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas.
Non sono mancate le critiche. Gianni Girotto, Capogruppo del Movimento 5 Stelle alla Commissione Industria, Commercio, Turismo Energia del Senato, ha duramente accusato la Sogin di non aver ancora imparato la lezione di Scanzano. “La Sogin deve seguire le procedure in modo trasparente coinvolgendo i cittadini, le istituzioni nazionali e regionali nei processi decisionali. Diversamente, la gestione sulla messa in sicurezza dei rifiuti nucleari italiani affidata a Sogin rimarrà inaffidabile”, ha detto il senatore pentastellato. Le tappe del cammino, intanto, sono già state definite nei dettagli a Bruxelles: entro il 2025 l’Italia dovrà dotarsi di un sito adatto a custodire, tutti insieme, i circa 90mila metri cubi di rifiuti radioattivi prodotti dalla ricerca scientifica, dalla medicina, dall’industria e soprattutto dalla chiusura, ormai risalente a quasi 30 anni fa, degli impianti nazionali.
Francesca Fradelloni