“L’Econnivoro”, manuale di resistenza alimentare
Una rivoluzione silenziosa e pacifica è in atto già da qualche tempo, ed è quella che passa per la nostra cucina e le scelte alimentari che consapevolmente facciamo ogni giorno. Decidendo cosa infilare nel carrello della spesa, possiamo salvaguardare la nostra salute ma, cosa ancora più importante, quella del pianeta. Non è necessario fare scelte radicali, basta solo tornare alla natura e seguirne gli insegnamenti. Rifiutare i prodotti dell’allevamento intensivo, ridurre il consumo di carne, far prevalere il principio della qualità su quello della quantità, cercare mercati alternativi e scoprire chi e cosa si nasconde dietro i colossi dell’industria alimentare sono le strategie che possiamo mettere in atto per opporci alle logiche di un sistema economico pericoloso e destinato all’implosione. Nel volume “L’Econnivoro“, recentemente pubblicato da Castelvecchi Editore/Ultra – e già recensito da Greenews.info - Massimo Andreuccioli traccia la strada dell’uomo del futuro, in grado di vivere in armonia e nel rispetto del paradiso naturale che lo circonda, promotore di una nuova forma di consumo etico e sostenibile. Per la rubrica “Racconti d’Ambiente“, pubblichiamo oggi un estratto dell’introduzione del libro.
Nel secondo dopoguerra, grazie alla scoperta degli antibiotici, all’invenzione di sistemi di produzione meccanizzati e alla pratica delle monocolture, sotto la spinta emotiva di un nuovo boom economico, nacquero gli allevamenti intensivi. Le fattorie si trasformarono in fabbriche, le creature che le abitavano divennero cartellini con un numero. L’idea dell’allevamento industriale poggiava su una motivazione apparentemente morale, etica e democratica: riuscire a produrre carne e derivati a costi sempre più bassi, permettendone così il consumo a tutti gli strati della popolazione. Così, nel giro di cinquant’anni le tecniche di allevamento, rimaste immodificate per millenni, subirono una radicale trasformazione. Tutto ciò ha avuto un senso, una giustificazione storica e sociale, perlomeno fino alla Seconda Guerra Mondiale e al successivo dopoguerra, durante il quale sono vissute generazioni di affamati persino nelle zone più evolute e ricche del pianeta. I nostri genitori lo ricordano ,ce lo hanno raccontato: avevano fame. In cambio di un pezzo di carne o di una doppia razione erano disposti a tutto: è stato così in Italia, in Francia, in Inghilterra, in Germania, e come dimenticare le file per il cibo nei Paesi a regime sovietico?
Poi è arrivato il boom economico degli anni Sessanta, un’improvvisa prosperità e ricchezza dagli Stati Uniti si è riversata sul continente europeo, dando la possibilità a tutti (o quasi) di crearsi un piccolo regno,un piccolo castello dove consumare, quotidianamente, un piccolo banchetto reale. Finalmente era arrivata la carne, tanto bramata, ma non era più il pezzo di lardo da buttare nel brodo, bensì il cosciotto d’agnello, la porchetta, il prosciutto, il guanciale, e poi il manzo e il vitello e tante altre nobili carni da assaporare, sempre più spesso. Dopo secoli di legumi, cavoli e bucce di cacio ammuffite, finalmente, si portavano in tavola prelibatezze succulente, carni bianche, rosse, pesci bianchi, azzurri e crostacei, e carni da piuma e da pelo, cacciate o allevate. Anche l’opulenza degli anni Sessanta e Settanta era giustificata da un desiderio di rivincita, era la vendetta contro una fame sopportata troppo, e troppo a lungo. Serviva a esorcizzare lo spettro delle carestie, delle tessere annonarie per il pane e dei brontolii dello stomaco che avevano caratterizzato la storia dell’umanità dagli albori fino all’ultima delle grandi guerre. Era come trovarsi di fronte allo zampillo di un’enorme fontana dopo aver attraversato un deserto lungo millenni. Normale ubriacarsi, normale fare indigestione. Negli anni Ottanta, poi, quel consumismo, inizialmente giustificato da un passato di privazioni ancora troppo recente, divenne vizio, si consolidò in sistema, si cristallizzò in abitudine. Gli allevamenti che già in quegli anni avevano affinato tecniche e tecnologie divennero un macrosistema folle e frenetico. Il «Proteinismo», nuova filosofia alimentare, spingeva le masse al consumo sempre maggiore di proteine rigorosamente animali, specialmente carne, meglio se rossa e succulenta. Il passo successivo fu il trasporto aereo di carni da un continente all’altro; una vera e propria invasione di prodotti provenienti dall’Argentina, dagli Stati Uniti, dalla Danimarca, dall’Irlanda, da ogni dove. Il consumo di carne salì alle stelle, le macellerie prosperavano, fino quando, finalmente, qualcuno si accorse che qualcosa non andava. E oggi?
170.000.000.000
Sono gli animali uccisi in tutto il mondo ogni anno per scopi alimentari (fonti: The State of World Fisheries and Aquaculture 2012, Fao, Fisheries andAquaculture Department; Global Livestock Productionand Health Atlas (GLiPHA), Fao, Agricolture and Consumer production Department, Animal production and healt; www.noi-animali.org/veg/dati/).
170 miliardi, il che significa che ogni mese più di 14 miliardi di animali vengono uccisi per finire sulle nostre tavole. Mezzo miliardo ogni giorno. Ogni ora, un olocausto con 19 milioni di vittime. Oltre 300.000 al minuto. 5.390 a ogni scatto della lancetta dei secondi. Provate a immaginare 5.390 creature che di colpo cadono a terra esamini oppure che una lama tagli di netto 5.390 teste, un secondo dopo l’altro, senza sosta.
170 miliardi equivalgono a circa 30 pianeti con la stessa densità di abitanti della terra, e ogni anno, simultaneamente, questa popolazione viene sterminata. Il numero di animali uccisi ogni 3 ore nel mondo per scopi alimentari è pari al numero di abitanti dell’Italia. E nel nostro Paese si uccidono 2 miliardi e mezzo di animali ogni anno;225 milioni ogni mese; 8 milioni ogni giorno; oltre 300.000 ogni ora;5.100 ogni minuto; 90 al secondo.
Nella seconda metà del Novecento il consumo globale di carne è aumentato di 5 volte, passando da 45 milioni di tonnellate all’anno nel 1950 a 233 milioni di tonnellate all’anno nel 2000, e la FAO ha stimato che entro il 2050 si arriverà a 465 milioni di tonnellate. Il Lussemburgo è la nazione che consuma più carne, superando i 130 kg l’anno, al secondo posto ci sono gli Stati Uniti, con oltre 120 kg. Poi a seguire Australia, Spagna e via dicendo, fino ad arrivare al nostro Paese in cui si consumano in media 90 kg di carne l’anno pro capite.
Per riuscire a soddisfare questa insaziabile fame di carne l’industria zootecnica ha ideato sistemi sempre più efficaci e specializzati. Se così non fosse, non si arriverebbe alle cifre citate qui sopra. Il sistema predominante per la produzione di carne infatti è l’allevamento intensivo. Negli Stati Uniti con il nome di Factory Farming, la percentuale di carne prodotta con le più moderne tecniche è altissima. Oltre il 99,9% dei polli da carne, oltre il 95% delle galline ovaiole, dei tacchini,dei maiali, e oltre il 78% dei bovini, viene allevato nelle «fabbriche di carne» (Censimento 2007 e direttive dell’Environment Protection Agency, Rapporto del National Agricultural Statistic Service 2008). In Europa, e in Italia, le percentuali si abbassano, ma non di molto. Per capire quali sviluppi ha raggiunto questo tipo di allevamento, basta leggere alcuni dati e numeri su questo argomento. Un terzo del raccolto mondiale di cereali è destinato a mangime per animali da allevamento.Il 95% della produzione di soia degli Stati Uniti (circa 100 milioni di tonnellate all’anno) è usato come mangime. Nel mondo, il 73% del mais, il 95% delle farine di semi e il 93% delle farine di pesce sono usati come mangimi. L’Unione Europea importa il 70% delle proteine di alta qualità usate nei mangimi, alcune da Paesi come il Brasile, l’Indonesia e il Senegal, dove regna la povertà. Una mucca da latte in un allevamento intensivo può mangiare ogni anno fino a 4700 Kg di erba e fieno e circa 1650 Kg di mangime proteico concentrato (soia, farine di pesce, farine di rapa). Ogni Kg di carne di manzo prodotto in Europa richiede 5 Kg di mangimi ad alto contenuto di proteine (FoE). Solo una frazione (generalmente il 30-40%) delle proteine vegetali con cui sono nutriti gli animali viene convertita in proteine animali; per il manzo, il rapporto di conversione è solo dell’8%.
Due terzi dei terreni agricoli mondiali sono usati per il mantenimento degli animali da allevamento. L’87% del consumo mondiale di acqua dolce è usato per l’agricolturae le Nazioni Unite prevedono che nei prossimi 20 anni 40 Paesi affronterannogravi carenze idriche. Per produrre 1 Kg di manzo alimentato con mangimi vegetali servono100.000 litri di acqua (100 volte la quantità che serve per produrre 1Kg di frumento e 50 volte quella necessaria a 1 Kg di riso). Nell’ambito dell’allevamento, la produzione di mangimi assorbe il 70% del consumo di combustibili fossili. Gli allevamenti di animali negli Stati Uniti producono 1,4 miliardi di tonnellate di letame solido all’anno: 130 volte la quantità prodotta dalla popolazione umana (fonte: Factory Farming and the Environment, a cura dell’organizzazione Compassion in World FarmingTrust). La forza inquinante del letame suino è 160 volte maggiore rispetto alliquame urbano (John P. Chastain, Pollution Potential of Livestock Manure,Minnesota/Wisconsin Engineering Notes, inverno 1995). Il letame di 200 mucche da latte produce una quantità di azoto paria quella di 10.000 persone.
(…) Direttamente e indirettamente, la moderna zootecnia utilizza complessivamente il 30% dell’intera superficie terrestre non ricoperta dai ghiacci e il 70% di tutte le terre agricole. Per lo più le terre vengono usate per il pascolo degli animali: quasi il 29% della superficie degli Stati Uniti, oltre il 40% del territorio della Cina (più di 4 milioni di chilometri quadrati) e più del 50% della regione orientale del continente africano, sono occupati da pascoli. La produttività dei prati a pascolo è molto variabile: un ettaro di prateria molto ricca può sostenere un manzo per un anno, ma possono essere necessari anche 20 ettari se si tratta di prateria marginale. Un altro importante fattore d’uso delle terre è la produzione di mangime: il 33% delle terre arabili del pianeta è usato a tale scopo (fonte: Fao Livestock Long Shadow).
E nelle acque, cosa succede? Nel 2009 sono stati consumati più di 145 milioni di tonnellate di pesce, di questa cifra abnorme, 55 milioni provengono da acquacolture, nella maggior parte dei casi intensive; e i restanti 90 milioni dalla pesca,che nella maggior parte dei casi utilizza tecniche di guerra.Il consumo medio di pesce dal 1961 al 2005 è aumentato del 71%, inItalia arriviamo al 108%.Nel Mediterraneo, l’80% delle risorse ittiche è sovrasfruttato.
Massimo Andreuccioli*
* Nato a Roma nel 1972, diplomato all’Istituto d’Arte, è appassionato di scrittura, arte, cucina e natura. Nel 2009 ha pubblicato il suo primo romanzo, I rifiuti del Tevere.