Rebirth House: come essere “diversamente occupati” a casa propria
Raramente le evoluzioni sociali avvengono all’improvviso, e tanto meno sono all’inizio fenomeni di massa. Come nelle esplorazioni, c’è bisogno di qualcuno – magari meno conformista, più coraggioso e un po’ incosciente – che sperimenti per primo modi diversi di vivere, lavorare, relazionarsi. Anche nel percorso che ci sta portando (forse sarebbe corretto aggiungere: inevitabilmente) verso uno stile di vita glocal, improntato a un uso più efficiente delle risorse e all’autoproduzione (di cibo, di energia, di beni) c’è chi ci è arrivato prima e ora prova a “contagiare” gli altri. Alberto Guggino è tra questi: ex informatico volontario in una Onlus, ex manager in una multinazionale del settore automotive, ex ristorato a Km. Zero e oggi, per usare le sue parole, “diversamente occupato della green economy alla ricerca dell’autonomia energetica e alimentare per la mia famiglia con un progetto di permacoltura e Casa Passiva”.
Per raccontare la sua storia, esempio di come l’idea della sostenibilità possa far evolvere la vita personale e lavorativa verso un maggior equilibrio con l’ambiente e il territorio, si può partire dalla fine. Quando cioè nel 2012, di fronte a una crisi economica che non promette niente di buono, Alberto decide di chiudere la sua osteria e di dedicarsi a finire un progetto concepito qualche anno prima, la Rebirth House: “Se faccio una casa priva di bollette e che rispetta l’ambiente, mi sono detto, ho un pezzo di pensione per il futuro. In questo senso, la Casa Passiva cambia il concetto di casa: non più un costo, legato a bollette altissime e a un mutuo, ma qualcosa che produce reddito, e persino un lavoro”. La casa della rinascita è un casale a Mombello di Torino, vicino a Chieri, ristrutturato secondo i principi della bioedilizia e del non-spreco: “Il cappotto è in calce, fibra di legno e cellulosa, il tetto è isolato con fibre di legno. L’energia elettrica arriva dai pannelli fotovoltaici, l’acqua calda da solare termico e stufa. Recuperiamo l’acqua piovana. La casa non consuma petrolio e suoi derivati”. Alla sostenibilità e all’attenzione ai dettagli – “solo così funziona una casa passiva” – si è aggiunta l’oculatezza, intesa come valore positivo: “Abbiamo ragionato in decrescita: la casa è progettata in modo tale da sapere bene cosa ci serve, non nell’ottica dell’abbondanza e dell’approssimazione tipica del passato. Per questo anche i materiali costruttivi sono stati dosati per evitare rimanenze e scarti”.
Oggi Alberto vive nella Rebirth House, premiata l’anno scorso dall’Ordine degli Architetti di Torino nell’ambito del concorso “Architetture rivelate“, con la moglie e i due figli: si dedica a studiare, diffondere il suo progetto, si occupa della madre anziana e lavora per produrre il cibo per la famiglia nell’orto e nel frutteto. “Il lavoro è ciò che produce reddito e non crea spese: in questo senso mi considero diversamente occupato. Oggi viviamo con il solo stipendio di mia moglie: una situazione che non ci fa fare sacrifici, ma piuttosto delle scelte”.
Il rapporto di Guggino con il cibo non è iniziato negli ultimi anni: dal 2005 al 2012 è stato il ristoratore di Casa Casellae, un’osteria con cucina a base di prodotti biologici del territorio, diventata ben presto anche luogo di cultura e formazione al mangiare sano e giusto. “L’idea era nata in contrapposizione alla delocalizzazione con cui mi ero trovato a fare i conti quando ero manager”. Nella multinazionale per cui ha lavorato per dieci anni, nell’ultima fase Alberto si era dovuto occupare di ridurre i costi spostando gli stabilimenti all’estero. “Questo innescò in me una serie di riflessioni sul sistema economico: con queste operazioni, gli operai mandati a casa non erano più in grado di comprare quello che producevano. Delocalizzando, poi, si perdevano lavoratori molto competenti e i rapporti con le aziende specializzate della filiera. Com’era possibile che, dopo queste operazioni, in borsa le azioni dell’azienda valessero di più, anche se l’azienda aveva perso il suo valore reale, costituito appunto dalle relazioni di distretto e dalla grande ricchezza data dalle risorse umane?”.
Di fronte a “un modello di sviluppo che puntava all’autodistruzione”, Guggino cerca di trovare una via d’uscita: “Ho provato a fare colloqui con vari cacciatori di teste, ma ho capito che le imprese stavano cercando un profilo che non mi corrispondeva: le aziende volevano dei leader, non persone in grado di lavorare in gruppo. Non parlavano mai di programmazione partecipata e condivisione”. Concetti invece cari ad Alberto, che partendo da quei principi sperimentati durante i sette anni di volontariato in un’associazione, aveva impostato il suo lavoro di addetto alla riduzione dei costi: “Inizialmente si trattava di rendere il lavoro più efficiente valorizzando le persone e le loro competenze. Nel 2002 riuscii a tagliare gli sprechi senza lasciare a casa nessun lavoratore, passando da 9 milioni di perdite a 2 milioni di utili. Ero abituato: nella onlus tutti i giorni dovevo fare tanto con poche risorse”. E la storia della Rebirth House non inizia qualche anno fa con l’apertura – e poi la chiusura – del cantiere di ristrutturazione, ma molto prima, con una sommatoria di scelte che oggi appaiono un po’ meno in controtendenza di allora. Qualcuno che apre la strada ci vuole e oggi, dice Guggino, “spero che il progetto della mia casa, aperta a tutti per le visite, si diffonda come un virus”.
Veronica Ulivieri