India, il colosso asiatico in bilico tra spiritualità ecologica e inquinamento di massa
Era all’ora del tramonto che le spiagge di Gokarna, nel Karnataka, si animavano di vita. All’alba e al tramonto. La luce rendeva un po’ tutto rosato, quando ho rivisto una ragazza spagnola incontrata durante il viaggio in pullman da Goa. Mi racconta che ha trovato da dormire sulla spiaggia, in una capanna singola, e che i ragazzi che gestiscono la guest house organizzano attività tutti i giorni: dallo yoga alla cucina. “Oggi abbiamo ripulito la spiaggia. Eravamo una decina, ci siamo portati sacchi e scatole dietro e abbiamo raccolto tutta la spazzatura della caletta. Ora però devo andare a chiedere ai locali se qualcuno può bruciare i nostri sacchi insieme alla loro immondizia perché i ragazzi non hanno pensato a come smaltirli..”. Ecco, sì, forse c’è ancora qualche passaggio mentale che manca.
C’è proprio disabitudine e non-cultura, qui in India, anche tra le persone che pure le cose le fanno, e in ottima fede. Sono pochissimi i bidoni e i cestini che ho incontrato durante il mio viaggio negli stati di Goa e Karnataka nell’India del Sud. Una delle mie compagne di viaggio, non abituata a buttare le cicche di sigarette per strada, ha riciclato un barattolo per raccoglierle, per evitare di girare per ore con la sigaretta spenta tra le dita.
Il paesaggio è verde, rigoglioso, incredibilmente ricco -per lo meno dal punto di vista naturalistico e fotografico- e riesce a camuffare a tratti l’inquinamento che lo contraddistingue. Il 65% del territorio, secondo alcune stime, è in processo avanzato di degrado, principalmente a causa della crescita industriale e turistica incontrollata, dell’abuso e della corruzione delle aziende nei settori idroelettrico e minerario. Sulla guida leggevo che dal 1947, anno dell’indipendenza, al 2010 sono stati distrutti 53mila kmq di foresta, abbattuti per lasciare spazio all’espansione urbana, alle industrie e alle coltivazioni multinazionali o per l’esportazione di legni pregiati quali il teak, il sandalo e il palissandro di cui l’India è uno dei principali esportatori. La distruzione delle foreste di mangrovie ha brutalmente impoverito il mare e 3mila km della costa del Sud sono considerati fortemente inquinati, come il 70% delle fonti d’acqua della regione. Acqua di scolo, discariche spontanee a riva, porti e stabilimenti abusivi, pesce incontrollata e allevamenti di gamberetti ad alto impatto ambientale: queste le cause principali dell’inquinamento dell’acqua, che non è più utilizzabile né come acqua potabile né per l’irrigazione dei campi.
Il suolo è talmente tanto impoverito che la produzione agricola è calata del 20% circa negli ultimi anni, dopo quella “rivoluzione verde” che anche in India negli anni ’60 ha permesso l’utilizzo di fertilizzanti, fitofarmaci e pesticidi per incrementare oltre modo le produzioni, soprattutto di cotone e tabacco.
A tutto questo si aggiunge il turismo che soprattutto nella regione di Goa è in continua crescita. Uno studio dell’ UNEP ha stimato che il consumo di acqua medio al giorno per ogni turista è di 300-500 litri (inclusi i consumi per la cucina, per l’irrigazione dei giardini e per le piscine) e solo lo stato di Goa, secondo le statistiche diffuse da www.goatourism.gov.in, ha ospitato nel 2012 2.337.499 turisti indiani, 450.530 turisti stranieri per un totale di 2.788.029 presenze: numeri che evidenziano chiaramente il problema dell’acqua tolta ai villaggi per alimentare gli hotel sulle spiagge.
Come gran parte dei colossi asiatici, anche l’India soffre di un grave inquinamento dell’aria, generato principalmente da fabbriche e industrie, ma anche dalla quantità di automobili -vecchie o vecchissime – in circolazione e dalla qualità dell’alimentazione: le emissioni delle automobili sono aumentate di 4-8 volte negli ultimi 20 anni e pare che il gasolio indiano contenga una quantità di zolfo mediamente 100 volte più alto di quello distribuito in Europa. A questo si aggiunge l’inquinamento domestico, dovuto all’utilizzo in casa di cucine tradizionali (focolari a pietre o fuochi aperti) a legno o carbone, causa ogni anno di mezzo milione di morti in India e di 4 milioni nel mondo e con drammatiche ricadute a livello globale se si pensa che la fuliggine presente nei fumi, oltre ad essere estremamente pericolosa per la salute, è la seconda causa di riscaldamento globale dopo l’anidride carbonica.
Ma quali costi ha l’inquinamento sull’economia indiana? Uno studio della Banca Mondiale ha analizzato la situazione dell’India per capire quanto l’inquinamento, il cambiamento climatico e il traffico incidono sui bilanci. Bastano pochi dati per farsi un’idea: il 5,7% del PIL indiano -circa 80miliardi di dollari- viene utilizzato per rispondere alle emergenze ambientali; il 3% solo per coprire le spese sanitarie di “origine ambientale” (legate principalmente all’inquinamento atmosferico e alle emissioni di combustibili fossili, che sono la causa del 23% delle morti infantili). Ancora secondo la ricerca, i danni dell’inquinamento urbano costano 18,5 miliardi di dollari ogni anno, il 29% del totale dei costi ambientali; la carenza e l’inquinamento dell’acqua 9 miliardi di dollari l’anno; il degrado delle terre agricole, dei pascoli e delle foreste causa circa 20 miliardi di dollari ogni anno. Costerebbe meno, è evidente, sviluppare e promuovere una politica di prevenzione, in India e nel mondo.
Ma l’India è anche tanta spiritualità che non può prescindere dall’amore e dal rispetto verso la natura. “La natura è madre dell’umanità e di tutti gli esseri viventi e perciò è nostra responsabilità averne cura” si legge sul sito Embracing the World, l’organizzazione umanitaria internazionale no profit fondata dalla guida spirituale Sri Mata Amritanandamayi Devi (Amma). L’associazione vuole partecipare concretamente al rilancio del messaggio di attenzione e cura per l’ambiente e per questo promuove la Campagna per un miliardo di alberi, promossa dalle Nazioni Unite, per cui ha già organizzato la messa in dimora di oltre 1 milione di alberi e stabilizzato oltre 13 km di costa del Kerala piantando 30mila piante dopo lo Tsunami dell’Oceano Indiano del 2004. ETW, inoltre, porta avanti il Progetto di Villaggio Indipendente per aiutare le popolazioni tribali a sviluppare dei villaggi autonomi e autogestiti che consentano loro di conservare i sistemi tradizionali e fare resistenza al modello industriale globale”km 0″.
Tema prioritario, quello della sostenibilità, anche al Simposio Nazionale della Commissione per la Teologia e la Dottrina della Conferenza Episcopale indiana dei vescovi di rito latino (CBCC-LR) dello scorso ottobre. Tre le richieste del simposio ai leader della Chiesa per un impegno costante e deciso nella promozione di una cultura e educazione ambientale; per la realizzazione di azioni concrete di conservazione di spazi verdi, di lotta all’inquinamento acustico, idrico e energetico e di diffusione del modello di casa eco-compatibilie; per fare resistenza al modello consumistico che sta devastando la natura, le economie, le piccole realtà locali.
Poi c’è, per esempio, il movimento Chipko, che in Hindi significa “aggrapparsi”, un movimento di lotta per la sopravvivenza radicalmente nonviolento, nato dalle donne contadine negli anni ’70. Contro le politiche di deforestazione aggressiva scendono in campo le donne, che abbracciano gli alberi per preservarli a costo di perderci la vita. Questo movimento ha ottenuto importanti vittorie giudiziarie, a volte sfociate in specifiche moratorie o decreti governativi e nel 1987 ha vinto il “Premio per il Diritto alla Sussistenza“, noto come il premio “Nobel alternativo”.
Per chi vuole visitare il paese con un occhio “green”, a parte alcune soluzioni locali piuttosto innovative (crescono di giorno in giorno le cooperative indiane attente agli aspetti di sostenibilità ambientale e sociale), esistono, dall’Italia, proposte di viaggio intelligenti che tengono conto innanzitutto del rispetto verso la terra che si va a visitare. Viaggi solidali, cooperativa di Torino che si occupa di turismo responsabile, insieme al partner locale The Blue Yonder, propone un itinerario in Kerala particolarmente centrato sulla sostenibilità ambientale. Durante questo itinerario di due settimane si ha la possibilità di alloggiare in un’azienda agricola che produce prodotti biologici presso il fiume Nila; nel distretto di Wayanad si incontrano agricoltori locali di spezie e di tè e caffè, che lottano quotidianamente per assicurarsi un’entrata dignitosa dalla vendita dei loro prodotti nell’ambito di un mercato globale. A Thattekkad e Periyar i percorsi sono gestiti direttamente da esponenti della comunità locale appartenenti a Comitati di Sviluppo Ecologico (Eco Development Committees – EDCs) e le guide coinvolte sono ex bracconieri “convertiti” in guide ecoturistiche.
Alfonsa Sabatino