La “Terra dei fuochi” raccontata da Domenico Iannacone
L’espressione “Terra dei fuochi” fu utilizzata per la prima volta nel Rapporto Ecomafie 2003 curato da Legambiente. «Roghi di rifiuti, materiali plastici, scarti e stracci: discariche abusive che bruciano senza fine, avvelenando seriamente l’ambiente e minacciando la salute di popolazioni intere». L’associazione ambientalista descrive così l’area di oltre 220 ettari a cavallo delle province di Napoli e Caserta che conta più di 2.000 siti inquinati censiti dall’Arpac.
“Terra dei fuochi” è anche il titolo di un reportage di Domenico Iannacone e Luca Cambi andato in onda nel programma di Rai Tre “I Dieci Comandamenti”. Lo scorso settembre il documentario ha ricevuto il premio Coop Ambiente (nell’ambito del concorso Ilaria Alpi) per «per aver saputo narrare con coraggio e rigore giornalistico un tema conosciuto, ma non così sapientemente approfondito che parte da una terra profanata e abbandonata assumendo i contorni di una denuncia civile e morale di carattere nazionale».
D) Domenico Iannacone, come nasce il documentario ed in particolare l’idea di farsi accompagnare da Don Maurizio Patriciello?
R) Oltre al fatto che fosse un prete, Don Maurizio mi aveva colpito perché ho riconosciuto in lui una tensione civile. Questo elemento aveva richiamato la mia attenzione, in particolare, dopo aver visto la scena in cui viene redarguito da un ex prefetto per essersi permesso di chiamare “signora” un altro prefetto. In passato mi ero già occupato di ambiente a Napoli, con Riccardo Iacona, in una trasmissione sul ciclo dei rifiuti da titolo dal titolo “Spazzatura”. Si trattava quindi di un tema che avevo già affrontato. Ma questa volta era importante tornarci con una “tensione morale”. Non c’era bisogno di raccontare in maniera analitica i fatti. Volevo portare un’anima diversa all’interno del racconto.
D) Infatti non si tratta di un argomento nuovo…
R) Un argomento che tuttavia era stato abbandonato e di cui non si parlava più da almeno due anni. Inoltre, quando mi recai per la prima volta nella “Terra dei fuochi”, la città di Napoli era sommersa dalla spazzatura. All’epoca il problema appariva minore. Colpiva di più la spazzatura per strada a Napoli, mentre passavano in secondo piano intere aree deturpate. Poi le cose sono fortunatamente cambiate.
D) Recentemente il Consiglio dei Ministri ha reso reato penale i roghi di rifiuti. Se questa misura fosse stata presa prima, si sarebbe arginato in qualche modo il fenomeno dei “fuochi”?
R) Assolutamente sì. Si trattava di un primo passo verso il presidio del territorio. Se lasci un territorio senza possibilità di controllo, in una zona di forte dispersione e disordine (anche dal punto di vista architettonico), risulta semplice buttare in strada stracci, metterci sopra solventi e dare fuoco a copertoni, scarti di lavorazione o quant’altro. Le diossine in quell’area si sono sprigionate per colpa degli incendi. La Campania è un territorio che in parte è stato deturpato irrimediabilmente. Il problema è che in Italia c’è una cattiva predisposizione a risolvere i problemi ambientali. Si arriva tardi e quando si arriva oramai le cose sono state così danneggiate che è difficile tornare ad uno stadio antecendente quella situazione. Credo che il nostro Paese sconti un ritardo su questo tema, perché avrebbe dovuto porre in tutte le agende politiche, la questione ambientale alla base dei ragionamenti.
D) Qual è la sensazione che le è rimasta dopo aver terminato il documentario sulla “Terra dei fuochi”, avendo toccato con mano quella realtà?
R) Quando attraverso quella terra ho una grande tristezza perché l’associo alle persone mettendo insieme terra e uomini. Il racconto che ho fatto, in fondo, aveva un suo collegamento. L’idea che volevo dare è che chi avvelena la terra, avvelena anche il sangue delle persone. E dopo che hai avvelenato il sangue, avveleni le coscienze e di conseguenza “uccidi due volte”. Il termine “biocidio”, usato per descrivere questa situazione, fa paura. Ma è un termine che mi riporta indietro nel tempo e mi fa pensare a stermini di massa. Si tratta di un neologismo che dovrebbe far riflettere i politici in generale.
D) Nel corso della sua attività giornalistica ha affrontato altre questioni ambientali?
R) Il tema dell’inquinamento è stato sempre presente. Ho raccontato la situazione di Taranto dove un’industria forte ha deturpato l’ambiente. Mi sono occupato anche di dissesto idrogeologico in occasione degli allagamenti di Genova. Ho raccontato le frane in Calabria. Sull’ambiente non possiamo comportarci come i coccodrilli che arrivano a eventi ormai avvenuti. Non possiamo farlo noi come giornalisti. Chi fa in informazione deve avere sempre la sensazione di anticipare i temi perché altrimenti andiamo a rimorchio delle cose e il mondo non cambia.
D) In quest’ottica, secondo lei, l’informazione ambientale cosa dovrebbe fare per penetrare di più nel flusso dell’informativo?
R) Chi fa informazione decide cosa far passare. Fino a poco tempo fa questo argomento non era “appetibile” e non passava nei titoli di testa. C’era una sorta di chiusura. Erano sempre notizie che passavano defilate o avevano un peso minore e si dovevano dare quando le cose erano già finite. Sull’ambiente c’è bisogno di fare un recupero in termini di comunicazione. Per quanto ci riguarda, nella serie de “I Dieci comandamenti”, sentiamo l’esigenza di raccontare una possibile svolta, vale a dire, l’idea che ci possa essere un mondo diverso in termini di impegno sui territori e sull’ambiente. Se continuiamo a raccontare dei pezzi di cronaca, anche importanti, ma non diamo nessuna possibilità di alternativa, noi giornalisti non abbiamo fatto bene il nostro lavoro.
Giuseppe Iasparra