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Cognetti: fuga selvatica a duemila metri, tra abeti rossi e larici

luglio 9, 2013 Racconti d'Ambiente, Rubriche

Per la rubrica “Racconti d’Ambiente“, pubblichiamo oggi un estratto del libro “Il Ragazzo Selvatico“, di Paolo Cognetti, una delle voci più promettenti della nuova narrativa italiana, da poco pubblicato da Terre di Mezzo. Il libro racconta la storia dell’autore, che lascia la città dov’è nato e cresciuto e se ne va a stare in montagna, in una baita a duemila metri. Qui, nella solitudine quasi totale, riscopre una vita più essenziale e rapporti umani sinceri con gli unici due vicini di casa. Il capitolo qui di seguito è intitolato “Ritorno“.

Verso sera ero di nuovo alla baita. Da lontano si nascondeva tra gli alberi, così mi spuntò davanti dopo l’ultima curva nel bosco come succede a volte con le persone, quando giri l’angolo e incontri qualcuno che era stato tuo amico e non lo è più, e non sai se abbracciarlo o passare abbassando lo sguardo. Provavo sentimenti simili per quella casa. Ero allo stesso tempo rincuorato e avvilito di essere di nuovo lì, senza le speranze con cui c’ero arrivato la prima volta. Il teschio di stambecco che avevo trovato in giugno, e che chiamavo il dio di Fontane, ancora sorvegliava il suo regno dal davanzale. I prati erano solo un po’ più gialli adesso, e la ciotola che usavo per i cani giaceva rovesciata nell’erba. A loro un po’ sarò mancato, pensai, e molto all’orticello: infestato dalle erbacce e devastato da qualche vitello in cerca d’insalata. C’erano ancora le sue impronte sulla terra morbida. Io più gentilmente mi tolsi gli scarponi sui gradini d’ingresso, posai il bastone accanto alla porta. In casa svuotai lo zaino direttamente nella lavatrice: avevo messo e rimesso gli stessi vestiti per settimane, senza nessun fastidio mentre vagabondavo per le montagne, ma adesso che ero a casa puzzavano terribilmente. Più tardi, mentre stendevo il bucato fuori, incontrai il pastore mio vicino, che era venuto a scusarsi a nome del suo vitello. Era molto in imbarazzo, non so se per il danno o il dovere delle scuse. Si offrì di portarmi una cassetta di verdura come risarcimento, ma lo ringraziai e gli dissi di lasciar perdere. L’orto non era stato una buona idea fin dall’inizio. Non mi dispiaceva restituirlo al prato.

Quella sera davanti al fuoco decisi di far pace con la baita. Quante esperienze avevamo condiviso? Pensai che ero scappato da lei proprio perché mi conosceva così bene, e aveva visto giorni e notti, le insonnie, le illusioni, le angosce e le euforie della mia solitudine. Andarmene per un po’ aveva fatto bene al nostro rapporto: mi sedetti a bere un bicchiere e a contemplare le tavole del tetto, i profili dei lupi, degli orsi e dei gufi disegnati dai nodi del legno; li sentivo familiari quanto un paesaggio d’infanzia. Ripensai alle scorribande d’agosto, ai venti d’alta quota e a tutta la pioggia che avevo preso, alle volte in cui avevo avuto paura, e cominciai a sentirmi grato alla baita, al fuoco, al vino, al pezzo di cielo stellato che riuscivo a vedere dal lucernario.

La mattina dopo restai in casa a leggere e cucinare. Nel pomeriggio andai a salutare Gabriele e Remigio, e passai il resto della giornata gironzolando nel bosco. Raccolsi bacche di ginepro per l’arrosto e un barattolo di mirtilli da mettere nella grappa. Il sottobosco adesso era punteggiato da grossi laricini gialli, qualche mazza di tamburo nelle radure, qualche amanita muscaria; i porcini, se c’erano, li aveva trovati un altro prima di me. Ma più che i funghi mi interessavano gli alberi. Stavo leggendo Arboreto salvatico di Rigoni Stern, solo che io abitavo molto più in alto rispetto a lui, e lassù non c’era traccia di faggi, frassini, querce, betulle, castagni, tutta la varietà del bosco di mezza montagna. Gli alberi dei duemila metri sono solo quattro, a cui mi sentivo devoto come a una schiera di santi protettori. Crescono al confine superiore del mondo arboreo, ultimi ad arrendersi al gelo, e anche a me sembrava di avere esplorato un limite – il mio – essere andato a vedere con quanto poco potevo vivere, quanto solo riuscivo a stare. Giravo per il bosco con il naso all’insù a osservarne le cime, il gioco del sole tra i rami. Pensavo che avrei voluto abbracciarli uno per uno. A casa scrissi:

Provo rispetto per l’abete rosso, come per l’abitante di un paese buio. Vive nei versanti umidi e nelle valli in ombra. L’umidità lo fa crescere in fretta: è un legno leggero, spugnoso, adatto a isolare le case dal freddo. È un rispetto formale il mio, per un albero che non capirò mai fino in fondo. Mi turba la sua indifferenza alle stagioni, perché una pianta sempreverde è come un volto che non cambia espressione. Diffido della chioma dalla forma perfetta, che rende difficile distinguere un esemplare dall’altro. Le grandi distese di abete rosso mi fanno pensare alle foreste del nord, ai laghi e ai fiordi, alla neve. Ma una volta, in luglio, mi sono arrampicato su un sasso e ho visto qualcosa che non dimenticherò più: la punta di un abete, solo gli ultimi rametti esposti al sole, coperta di fiori azzurri, spettacolo privato degli uccelli del cielo”.

Ammiro il pino silvestre come un pioniere. È il primo albero ad alto fusto a colonizzare le pietraie, i canaloni spazzati dalle valanghe. Affonda le radici tra le rocce tessendo una rete che le tiene insieme. La povertà del terreno ne fa un albero dalla forma irregolare e bizzarra, un esemplare diverso dall’altro, tutti ricurvi e contorti come le ossa dei vecchi montanari. Impossibile ricavarne legname da costruzione. Non è adatto nemmeno alla stufa, perché la sua resina incendia le canne fumarie. Ma la stessa resina è il primo profumo del bosco che si sveglia dal letargo. Quell’odore mi ricorda il sud e il mare: forse perché altri pini profumano la macchia mediterranea. Così il pino silvestre è un sogno di sole nel bosco sotto la neve”.

“Amo il larice come un fratello. Il larice è l’odore di casa e il fuoco del mio camino. Una fila di larici è ciò che vedo quando alzo gli occhi dal foglio e guardo fuori. Nei giorni di vento ondeggiano come spighe. Il larice trascorre lunghi mesi di sonno, prima di mettere le gemme in aprile, e poi cambia colore con l’avanzare dell’estate: dal verde pieno di giugno a quello sbiadito d’agosto, fino al giallo e al rosso di ottobre. Ama il sole, i versanti sud delle montagne, i terreni secchi. Cerca la luce spingendosi in alto, sopra i compagni che ha accanto: per questo i rami più bassi si seccano progressivamente, un po’ come succede alle foglie delle palme, e basta poco a quel punto a spezzarli. Ma la fragilità dei rami garantisce la solidità del tronco: di larice sono le travi dei ponti e dei tetti. Su quella di colmo i montanari usano incidere la data di costruzione: le case più imponenti di questa valle risalgono tutte all’inizio del ‘700. Io osservandole penso a quei larici vecchi di quattro secoli, uno passato nel bosco e altri tre a sostenere una casa, e mi sembra il servizio più nobile che un albero possa rendere a un uomo”.

Venero il pino cembro come un dio. Il bastone con cui cammino viene da lui: ha un legno bianco che non ingiallisce con il tempo, forte ed elastico nelle corse sui sentieri. Altrove vive in foreste, da queste parti invece è un albero solitario dalla crescita lentissima. Ha semi che gli uccelli nascondono nelle loro dispense segrete, le crepe dei massi ad alta quota. Poi basta un po’ di terra, una vena d’acqua piovana: gli arbusti di pino cembro crescono lassù, sul ciglio dei dirupi, tra gli spuntoni di roccia, in luoghi inaccessibili all’uomo. A volte assumono forme tormentate per le acrobazie che devono fare crescendo, per la neve che li torce e li flette, per il fulmine che li spezza. Ho trovato il più coraggioso degli alberi a 2500 metri, un arbusto di pino cembro cresciuto in una minuscola cengia, che lo proteggeva dal vento e gli raccoglieva un po’ d’acqua dal cielo. Mi è sembrato di avere scoperto un tempio segreto, e devo aver detto qualcosa di simile a una preghiera”.

Paolo Cognetti

 

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